01.08.11
Vito Peluzi, dai Cimini ai Carpazi
Storia del frate minore conventuale vignanellese che divenne arcivescovo in Moldavia

di Vincenzo Pacelli

(pubblicato su Cronos - anno II, n.4 - ottobre 2009)

Riveduto, corretto ed ampliato in più parti

 

Se io chiedessi cosa lega Vignanello alla Romania, la maggior parte dei lettori risponderebbe di certo: «I Rumeni che abitano a Vignanello», altri potrebbero aggiungere: «i Vignanellesi che sono andati in Romania». Entrambe le risposte sono senz’altro corrette, ma esiste una connessione molto più profonda e completamente ignota ai più, un legame singolare fra Vignanello e la Romania, per l’esattezza con la regione storica della Moldavia[1], distretto di Bacău, 300 chilometri a nord di Bucarest, ai piedi della catena montuosa dei Carpazi.

Per scoprirlo bisogna andare un po’ indietro nel tempo, quando la distanza fra le nazioni era molto più incolmabile di quanto non lo sia oggi, quando l’abisso che esisteva era non tanto geografico, ma soprattutto culturale, quando percorrere centinaia di chilometri era davvero un’avventura in cui ci si poteva lasciare la pelle. Ebbene sì, il punto di contatto fra questo piccolo paese del Lazio e le sperdute lande rumene risale a circa trecentocinquanta anni fa.

Attorno alla metà del ‘600 un frate partì da Vignanello alla volta della Moldavia e negli anni che seguirono si diede così da fare che ancora oggi nel distretto di Bacău, e non solo, si parla di lui e su di lui eminenti studiosi italiani e rumeni hanno scritto tomi su tomi. Ma cosa potrà mai aver fatto questo frate vignanellese per essere ricordato ancora oggi? Ricordato e studiato, sia ben chiaro, in Italia e in Romania, in diversi testi specialistici scritti da storici e linguisti, ma completamente dimenticato nella sua terra d’origine, salvo qualche fugace citazione su alcuni vecchi documenti che di seguito riporterò.

Ma andiamo per ordine. Chi era questo francescano dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, che dai Cimini raggiunse i Carpazi?

Atto di battesimo di Cesare Peluzi (poi padre Vito)

                Addì detto 1620

Cesari figlio de felice pilutio, et de Donna Simidea
sua moglie fù battezzato da me sopradetto
prete Horatio. Compari furno il Clerico Pompeo
pauolocci, et Donna Pulisena moglie de
Angelo alias Crudele de mastro Angelo; nacque
addì 14 del detto [mese di settembre 1620]

Nato il 14 settembre 1620, secondo di sette figli di Felice Peluzi[2] e donna Semidea, viene battezzato il giorno seguente con nome di Cesare[3]. La famiglia è fra le più distinte del paese, suo nonno era il notaio Giovanni Peluzi, che esercitò la professione a Vignanello ed in altri centri del Viterbese dal 1569 al 1613[4].

Cesare, divenuto frate francescano assume il nome di Vito, e all’età di 33 anni è tra i missionari che la Congregazione De Propaganda Fide decide di inviare in quel difficile territorio che era la parrocchia di Baia, nel Principato di Moldavia, dove i cattolici erano una sparuta minoranza, in mezzo a ortodossi, luterani e musulmani. Una terra in cui le scorrerie dei Turchi erano all’ordine del giorno, dove le poche chiese erano di legno, disperse in villaggi di poche decine di abitanti, per la maggior parte analfabeti e in condizioni di estrema povertà.

Per comprendere meglio quale era la situazione in quelle zone, quali compiti avevano i missionari francescani e la rilevanza del nostro Vito, può essere utile leggere questo breve estratto da un articolo sull’argomento:

 

«Nel Seicento, l’istituzione delle missioni della Congregazione De Propaganda Fide, in Moldavia e Valacchia, diede il via ad una vasta attività religiosa nelle terre romene, soprattutto ad opera dei minori osservanti o conventuali. Insediandosi per vari periodi nelle parrocchie cattoliche delle città romene, i missionari cercarono spesso di risolvere le difficoltà materiali, ed i problemi politici e confessionali, provvedendo al rafforzamento della comunità di cui erano guida spirituale e riedificando le modeste chiese in cui servivano.

Tenuti ad inviare i loro rapporti ai cardinali superiori della Congregazione, i chierici missionari nelle città moldave riferivano minutamente i dettagli riguardanti la vita della comunità cattolica locale, sottolineando le caratteristiche etniche, i costumi, la consistenza numerica, e i bisogni, fornendo un vero e proprio quadro rispecchiante l’immagine cittadina seicentesca.

Spesso veniva presentata, nei documenti redatti durante la missione, anche la situazione degli abitanti non cattolici delle stesse città. Questi ultimi, infatti, costituendo la maggioranza dei cittadini, dovevano conoscere le prospettive offerte dalla conversione, e cercavano di raggiungere l’intesa comunitaria, spesso evitando ogni malinteso che potesse nuocere alla minoranza cattolica.

Tra le relazioni o le visitationes seicentesche dei missionari cattolici in Moldavia, le più importanti, dal punto di vista documentario, risultano quelle di Paolo Bonici, Nicolò Barsi, Marco Bandini, Petar Bogdan (Deodato) Bakšić, Benedetto Emanuele Remondi, Vito Piluzzi ecc.»[5].

 

Frate Vito svolse il suo compito di missionario nella parrocchia di Baia per almeno dieci anni, dal 1653 al 1663, poi tornò in Italia, ma non vi rimase per molto. Avendo svolto degnamente la sua funzione, con la soddisfazione sia dei parrocchiani che dei più alti rappresentanti religiosi locali[6], venne nominato prefetto della missione e sempre nel 1663 è di nuovo in Moldavia, aiutato da altri tre frati conventuali e da due parroci locali.

Prosegue la sua missione per circa altri sei anni, sotto la guida del Nunzio Apostolico in Polonia. A quei tempi la Congregazione De Propaganda Fide premeva affinché venissero scritti testi religiosi nelle lingue dei luoghi in cui erano in corso delle missioni. Molti missionari promettevano testi di grammatica e vocabolari, certi che avrebbero fatto cosa gradita e che in virtù di ciò avrebbero potuto occupare posti di rilievo nella missione oppure ottenere importanti titoli. Opere tante volte annunciate e poi mai scritte da sedicenti intellettuali religiosi che alla resa dei conti si rivelavano soltanto dei millantatori e spesso non conoscevano neanche la lingua.

Anche Vito puntava in alto (sappiamo che a partire dal 1670 sollecitava una sua nomina a vicario apostolico) ma a differenza di altri, lui, ricco della pluriennale permanenza in quelle terre straniere e dopo aver appreso la lingua parlata direttamente dagli abitanti di quei luoghi, aveva tutte le carte in regola e così, durante un breve periodo di permanenza in Italia scrisse una Dottrina Cristiana: un catechismo in rumeno, il cui titolo completo è Dottrina Christiana tradotta in lingua valacha, dal padre Vito Pilutio da Vignanello Minore Conventuale di S. Francesco. L’opera (frontespizio qui a fianco) venne stampata a Roma nel 1677 nientemeno che dalla Tipografia di Propaganda Fide e costituì una sorta di apripista per le successive traduzioni di testi religiosi, tanto che diversi intellettuali rumeni hanno utilizzato e citato nelle loro trattazioni il testo di Vito Peluzi in quanto l’autore fu fra i primi a stabilire un sistema di segni grafici per rendere nei caratteri latini i suoni della lingua locale, normalmente scritti con l’alfabeto cirillico.

I caratteri latini, a tal proposito, sono all’origine del principale interrogativo che si sono posti linguisti e filologi in merito ai testi redatti in quei tempi dai missionari. Il punto è questo: i cattolici rumeni erano veramente pochi e nel caso in cui avessero saputo leggere, in quelle nazioni erano in uso i caratteri dell’alfabeto cirillico. Allora per chi scrivevano i missionari, se stampavano con i caratteri latini? La risposta più logica è che scrivessero per gli occidentali che dovevano recarsi là, traducendo in rumeno, ma lasciando i caratteri latini, cosicché il testo potesse esser letto più facilmente dai missionari italiani, che allo stesso tempo dovevano apprendere e comunicare nella lingua locale.

In questo ordine di idee rientra anche l’opera del frate vignanellese, che avendo esaudito egregiamente le inquietudini evangelizzatrici della Congregazione, nel marzo del 1678 ricevette il titolo onorifico di arcivescovo di Marcianopoli.

Fece quindi nuovamente ritorno in Moldavia per portare avanti la sua opera missionaria. Con la morte del vescovo di Bacău, Iacob Gòrecki (1678-79), Vito nonostante le sue non ottime condizioni di salute e le notevoli difficoltà date dalla precaria situazione dei centri abitati a lui sottoposti, assunse l’incarico di vicario apostolico. Ne abbiamo testimonianza nella numerosa corrispondenza e possiamo leggere le sue sensazioni da alcuni stralci dei rapporti che regolarmente inviava ai suoi superiori a Roma.

Bacău, 10 iulie 1682
[...]Foroano: Strappati di nessun valore sono i paramenti, calice, croce, due campane. Vi erano quest’anno passato più di 100 case, ed hora non vi saranno 60, e stanno fuggitivi nelle selve. Il P. Antonio Giorgini, mio cappellano gli va a servire, ed è lontano di Baccovia mezza giornata. Iddio sa quanto s’affaticha, che molte volte va a piedi a confessarli… ha il vescovato solo una vigna in Foroano, ma credo, che anco quella sara abbandonata...[7]

1686
[…] solo in Forrano, sono rimasti pochi cattolici, Il P. Luccioli stette quattro settimane in Foroano, e perchè non haveva da mangiare, fu forzato di partire...[8]

Bacău è la sede del vicariato, che Vito nella prima lettera chiama con il nome italianizzato in Baccovia, mentre Faraoani (Foroano, Forrano nelle lettere) è un piccolo centro abitato, uno dei tanti minuscoli villaggi della diocesi guidata dal Peluzi, dove le case e le chiese sono di legno e gli abitanti fuggono nelle boscaglie per salvarsi dalle frequenti incursioni dei Turchi ostili alla presenza dei cattolici.

Oltre che per il suo ruolo svolto in ambito religioso, Frate Vito in Romania è ricordato anche per un altro motivo, prettamente culturale. Miron Costin (1633-1691) è stato un importante storico rumeno (monumento a destra), nel 1686 scrisse il De Neamur Moldovenilor, ossia: Sulla stirpe dei Moldavi. In questa sua opera, dove per la prima volta viene attestata la parentela fra Italia e Moldavia, motivo per cui il rumeno è una lingua neolatina, lo storico dedica un intero capitolo a Roma ed un altro all’Italia, che descrive, senza averla mai vista, come un paradiso terrestre. Certamente avrà avuto a disposizione documenti e trattati che raccontavano dell’Italia, ma non è da escludere che alcune informazioni possano provenire dalla viva voce del nostro Peluzi, in quanto rileviamo da più fonti che «Vito Peluzi ha tenuto colloqui con Miron Costin sull’origine della lingua e dei costumi di Roma»[9] e inoltre «il conventuale introdusse [nella sua Dottrina, n.d.a.] grafemi dell’ortografia polacca (di cui doveva avere una certa conoscenza, se non altro per la frequentazione con intellettuali del calibro di Miron Costin)»[10], ed ancora «Era in buone relazioni con Miron Costin, al quale fornì informazioni per iniziare il suo libro De Neamur Moldovenilor»[11]. Per di più, è lo stesso Miron Costin a citare espressamente Vito Peluzi nel suo trattato[12].

Nel 1687, quel Vignanellese che trentaquattro anni prima era partito da semplice missionario, poi divenuto prefetto della missione, quindi vicario apostolico ed arcivescovo di Marcianopoli, l’illustrissimo Peluzi, amatissimo e stimato dai suoi parrocchiani, ricordato e studiato ancora oggi per la prima traduzione della dottrina cristiana in lingua rumena, frequentatore assiduo ed ispiratore del più importante storico rumeno del ‘600, ideatore di nuovi grafemi per rendere la traduzione dei caratteri cirillici nell’alfabeto latino, ormai 67enne, dopo aver percorso per più volte la strada che dall’Italia portava in Moldavia, saluta quei luoghi divenuti ormai a lui familiari, quelle terre ostili in cui ha trascorso gran parte della sua esistenza, e si incammina per l’ultima volta in direzione della sua terra natale. Fa ritorno a Vignanello e soltanto due anni dopo muore.[13]

La sua opera di missionario è ricordata ancora oggi in Romania, tanto che il suo nome si può rintracciare con estrema facilità: è sufficiente visitare l’home-page del sito web di Bacău, sede del suo vicariato, oppure i siti dei comuni che facevano parte della sua diocesi, come Faraoani, Valea Mare, Galati, etc.

Come si noterà dalla citazione delle fonti, quasi tutte le notizie su Vito Peluzi non provengono da testi di storia locale, ma si trovano maggiormente in articoli contemporanei di studiosi rumeni ed italiani, appartenenti a diversi enti ed università, fra cui spicca l’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia.

Ma ricordo ancora la prima volta che ho letto il nome del frate vignanellese, diversi anni fa. È stato sul Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica di Gaetano Moroni, in cui si legge: «Vignanello è patria di non pochi che seppero farsi distinguere per dottrina, per pietà e per altri pregi. [...] Di Vignanello è ancora monsignor Vito Peluzi de’ minori conventuali e arcivescovo di Marcianopoli in partibus, che a’ 12 marzo 1679 amministrò in patria il sagramento della cresima a più di 250 fanciulli»[14]. L’autore purtroppo non cita la fonte di questa notizia e non aggiunge altre informazioni significative.

Più recentemente ho potuto consultare due documenti conservati nell’archivio di famiglia Lagrimanti[15] riguardanti l’arcivescovo e due suoi discendenti. Il primo è un foglio di lasciapassare redatto dal conte Antonio Carafa[16], con tanto di firma autografa e sigillo impresso a secco recante il suo stemma araldico. Nel documento, rilasciato a Eperies[17] il 18 febbraio 1687, il conte in qualità di Comandante Generale dell’Ungheria Superiore fa in modo che l’Illustrissimo e Reverendissimo Signor Vito Peluzi Arcivescovo Marcianopolitano e Vicario Apostolico della Valacchia possa attraversare la Polonia senza impedimenti, ordinando a tutti coloro che si trovassero lungo il suo percorso di trattarlo con ogni attenzione (omnem benevolam voluntatem) e di fare in modo che non sia impedito a lui, al suo accompagnatore, ai suoi servi, ai suoi cavalli e ad ogni sua pertinenza, di procedere nel loro tragitto. Siamo nel 1687, l’anno in cui Vito, ormai quasi settantenne, sta facendo definitivamente ritorno in Italia. Si potrebbe supporre che questo documento possa essere interessante nel fornirci informazioni sulla via seguita da Vito dalla Moldavia allo Stato Pontificio. In realtà, partito da Bacău, Vito ha attraversato tutta l’attuale Romania e si trova in Ungheria, dove grazie al conte Carafa ottiene questo lasciapassare che gli permetterà di percorrere serenamente la Polonia. Ma la Polonia è a nord dell’Ungheria e non si può dire che sia proprio di strada per tornare in Italia. Si tratta di una deviazione abbastanza considerevole, di fatto poco comprensibile, ma il secondo documento dell’archivio Lagrimanti viene in aiuto per comprendere il perchè di questa variazione di percorso.

Si tratta di pochi ed essenziali appunti presi dal don Giovan Francesco Lagrimanti e riguardanti un nipote dell’arcivescovo: Felice Peluzi. Quest’uomo rischiò di non potersi sposare proprio a causa dello zio, più esattamente per il fatto di averlo accompagnato in uno dei suoi viaggi in Moldavia. Felice si ritrovava impossibilitato a dimostrare che durante il lungo periodo trascorso fuori dalla sua patria fosse rimasto celibe. Il particolare interessante è che il nipote di Vito, mentre lo zio adempiva ai suoi obblighi in Moldavia, era stato per ben sette anni in Polonia, per motivi che ci rimangono ignoti, ma di contro potremmo aver trovato una ragione plausibile per la quale Vito aveva bisogno di un lasciapassare per quella nazione a nord dell’Ungheria.

Il documento narra di come Felice, partito quattordicenne fosse rimasto in Polonia fino all’età di ventuno anni. La risposta della Sacra Congregazione del Sant’Uffizio alle sue richieste fu molto semplice, forse anche grazie al nome dell’illustrissimo zio: essa concesse al vescovo di Civita Castellana di ricevere un giuramento in prova del suo stato libero, non senza averlo messo precedentemente a conoscenza delle pene cui incorrevano i poligami. Così Felice giurò e poté sposarsi, con buona pace dei suoi eventuali amori sbocciati in terra polacca.

Suo figlio Bernardino è un altro personaggio interessante. Ci fornisce alcuni elementi sulla sua persona e su quanto era tenuta in considerazione la famiglia Peluzi a Vignanello, una lettera trascritta dal Lagrimanti. Porta la data del 3 gennaio 1760 ed in essa tutto il capitolo della chiesa collegiata (abate, primicerio, vicario foraneo, canonici, beneficiati e sacerdoti semplici) sottoscrive quella che oggi definiremmo una raccomandazione:

«Noi sottoscritti Dignità, Canonici, Beneficiati dell’Insigne Colleggiata di questa Terra di Vignanello, sacerdoti semplici, tacto pectoris, e secolari mediante il nostro giuramento qual’ora faccia di bisogno attestiamo conoscer benissimo il Signor Bernardino Pelusi unico superstite di detta fameglia, essere una delle più fameglie civili di questa istessa Terra, il quale ha esercitata la Curia più anni in Roma, moltissimi anni esser stato in qualità di Governatore in più, e diversi luochi, e da due anni, che hà fatto in questa Terra ritorno, è vissuto, e vive onestamente del proprio, e con tutta civiltà, e lo abbiamo veduto continuamente praticare con Sacerdoti, e Persone Civili, mai abbiamo inteso e nè veduto essere stato sorpreso dal vino, e sempre lo abbiamo veduto esser perfettamente ne sensi mai alterato...».

Bernardino, figlio di Felice e pronipote di Vito, all’epoca di questa lettera aveva già 60 anni, continuò a fare il governatore in diverse località fino al 1775, anno in cui tornò a Vignanello dove morì l’anno seguente. Ultimo discendente dei Peluzi vignanellesi, unico superstite di detta fameglia, morì senza lasciare eredi.

Ma come in ogni storia che si rispetti, sul finale c’è il colpo di scena. Da un altro documento, uno schema genealogico ricostruito nel 1801 da un parroco di Vignanello, si scopre che tre rami di altrettanti cognomi vignanellesi costituiscono la prosecuzione dell’estinta famiglia Peluzi. Eredi testamentari dei beni di Bernardino furono infatti i pronipoti di tre figli di Teodora Peluzi, figlia di Giovanni, sorella di Felice e zia di Bernardino, nonché naturalmente nipote di frate Vito (vedi schema genealogico in fondo [18]). Teodora sposò Silvestro Pacelli e dal loro matrimonio tre figli ebbero a loro volta discendenza, sono Pasqua (sposata Chiricozzi), Giulia (sposata Annesi) e Antonio Pacelli, antenato dell’autore del presente articolo :-)

Un ringraziamento a Ileana Illy Varga per l’aiuto nella traduzione dei testi in romeno.

Note

[1] Il nome Romania entra in uso ufficialmente soltanto a partire da XIX secolo, prima si parlava di Valacchia e Moldavia per indicare i principati a popolazione rumena. Parte dell’originario principato moldavo attualmente non fa parte della Romania ma è uno stato a parte: la repubblica di Moldavia.

[2] Come solito in quell’epoca, il cognome oscilla fra diverse forme. Negli atti in latino si può trovare scritto, a seconda dei casi: Pilutius, Pilutii o Pilutio. Nei manoscritti locali spesso la t finale è sostituita dalla s. In italiano viene tradotto come Piluzio, Piluzi, Peluzi, Pelusi o più raramente nelle varianti Peluzzi, Piluzzi. Nei documenti conservati a Vignanello la versione che si afferma è Peluzi (di rado Piluzi o Pelusi) ed è solo quest’ultima che utilizzerò nel presente articolo per uniformità.

[3] Archivio Parrocchiale di Vignanello. Battesimi, vol. I, f. 140r.

[4] Archivio di Stato di Viterbo (ASV). Inventario dell’Archivio Notarile di Vignanello.

[5] Cristian Luca – Eugen Zuică. Catolicismul în sudul Moldovei în secolul al XVII-lea. ISTROS (XI/2004).

[6] Dimitru Zaharia. Vito Piluzzi despre catolicii din Moldova. Su www.observatordebacau.ro

[7] Manoscritto in Archivio storico della Sacra Congregatione per l’Evangelizzazione dei Popoli o “De Propaganda Fide”, Roma, Scritture riferite nei Congressi, Moldavia, vol. 2, p. 116-119 (APF SC Moldavia); pubblicato in I. Bianu, Vito Pilutio. Documente inedite din archivulu Propagandei, în Columna lui Traian, s.n., IV, 1883, p. 260-263.

[8] Manoscritto in APF SC Moldavia, vol. 1, p. 94-95; pubblicato in Diplomatarium Italicum, vol. I, p. 140-150.

[9] Dimitru Zaharia. Vito Piluzzi despre catolicii din Moldova. Su www.observatordebacau.ro

[10] Teresa Ferro. Caratteri latini nelle opere dei missionari italiani in Moldavia tra XVIII e XIX secolo. Su Quaderni della Casa Romena (3) 2004. Casa Editrice dell’Istituto Culturale Romeno, 2004. p. 297.

[11] Emil Dumea. Istoria bisericii catolice din Moldova. Sapientia. Iaşi, 2006. p. 130.

[12] Miron Costin. Opere. Edizione a cura di P. P. Panaitescu. Bucarest, 1958. p. 247.

[13] Emil Dumea. Op. cit. p. 130.

[14] Gaetano Moroni. Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni. Tipografia Emiliana. Venezia 1860. p. 232.

[15] Materiale eterogeneo gentilmente messo a disposizione da Giuseppe e Francesco Lagrimanti.

[16] Antonio Carafa (1642-1693), appartenente alla famiglia nobile di origine napoletana, fu generale e maresciallo di campo di Leopoldo I del Sacro Romano Impero. Giovan Battista Vico gli dedicherà un’impegnata biografia.

[17] Si tratta della città di Prešov che attualmente si trova nella Slovacchia orientale (a circa 50 chilometri dal confine con la Polonia), ma nel ‘600 era Ungheria settentrionale. Infatti il conte Carafa è Comandante Generale dell’Ungheria superiore.

[18] Lo schema è stato ricostruito grazie al documento citato ed arricchito da ulteriori dati estratti dai registri dell’Archivio Parrocchiale di Santa Maria della Presentazione di Vignanello.

    

 

 

Giusto per avere un'idea dei viaggi di frate Vito ho richiesto "indicazioni stradali" su Google Maps, per quel che può valere :-)

  
C'è il tragitto, diciamo di andata: da Vignanello a Bacau (1984 km)
ed il tragitto finale di ritorno: da Bacau a Eperies (817 km), poi in Polonia (non sappiamo dove)
e poi di nuovo da Eperies fino a Vignanello (1455 km).

 

 

03.08.11
P.S. Grazie ad un servizio di "book on demand"

ho fortunosamente scoperto una copia dell'opera del Peluzi conservata una biblioteca in Slovenia.

Naturalmente ho ordinato una scansione ed ho or ora appena ricevuto il file pdf del libro di frate Vito.

Ho aggiornato l'immagine del frontespizio all'interno del testo, adesso è decente, ma

mi aspettavo qualcosa di più, sono solo una trentina di paginette
e nemmeno un ritratto dell'autore... :-)