30.01.12

“Casta diva”          “San Vittore”          “Zsor Otello”

di Lillo Pacelli

 

Eravamo vicini al Natale 2009, giorno più giorno meno. Da noi e tra noi, molto familiarmente si dice: «Stemio sotto Natale».

Propaganda di vario genere, a più non posso: murale, giornalistica, televisiva, postale, porta a porta e, soprattutto quest’ultima, recapitata casa per casa, in abbondanza, fino all’esaurimento degli spazi disponibili nelle cassette della posta e nei punti di appoggio possibili fin tra le sbarre dei portoncini in anodizzato. Una mattina di brutto tempo, non potendo fare altro, ancora un po’ assonnato, ho acceso il televisore e, proprio per evitare i continui spot pubblicitari, stavo facendo l’ormai consueto zapping, quando mi sono imbattuto in una emittente che stava mandando in onda una monografia su Vincenzo Bellini e la sua “Norma”.

Qualche notizia biografica sull’autore, qualche ragguaglio sull’opera e sul suo contenuto letterario e musicale e poi… le prime note inconfondibili di: “Casta diva”, interpretate, quasi recitando, in un contesto scenografico encomiabile, da una giovane soprano calatasi in maniera fantastica nel personaggio della sacerdotessa Norma.

L’orchestra, le note, la voce limpida dell’artista, mi hanno portato lontano negli anni, ma poco lontano dal luogo in cui ora vivo ed ho vissuto da sempre: a Vignanello.

Ormai è una abitudine per me, è quasi un vizio (un bel vizio però, ce ne sono di peggio), una mia inclinazione: ogni immagine, località, conversazione, dalla più banale alla più suggestiva e significativa, me ne richiama spesso alla memoria un’altra, vissuta in precedenza, e in qualche modo legata, attinente o collegata per associazione di idee a quella apparsa, anche mentalmente, qualche attimo precedente al mio volo a ritroso nel tempo.

Le note della “Casta diva” mi hanno riportato a quando ero un ragazzo di sedici diciassette anni, nella seconda metà degli anni Cinquanta, in un fine settimana degli inizi di agosto, quando a Vallerano si svolgevano gli annuali festeggiamenti estivi in onore del patrono del paese: San Vittore martire.

In quegli anni questa ricorrenza era un appuntamento da non lasciarsi sfuggire per mille e un motivo, per noi ragazzi di Vignanello e dei paesi vicini, perché  attendevamo con impazienza ogni novità ed occasione per evadere dal quieto e ripetitivo vivere giornaliero, spesso un po’ monotono del nostro vicinato.

I festeggiamenti cominciavano il sabato. L’inizio era annunciato dallo squillare a festa delle campane di mezzogiorno e dal contemporaneo scoppio delle bombe che si susseguivano per un lasso di tempo che sembrava interminabile. In un crescendo continuo, i botti lasciavano nel cielo sopra ai castagneti che facevano da cornice alla cupola del Ruscello, nuvole di fumo e, specialmente gli ultimi tre, scuotevano fin dalle fondamenta le case e tutti gli edifici di Vallerano e, se pur più lontano, di Vignanello.

Noi ragazzi del mio vicinato e del rione della Piazza, ci davamo appuntamento per verso le tre del pomeriggio giù da piedi i’ bborgo. Non mancava mai nessuno, anzi spesso ce n’era qualcuno nuovo. Si partiva quando eravamo, diciamo, tutti.

La prima visita era alle bancarelle, poi al settore divertimenti, al palco sul quale si sarebbe esibita la Banda Comunale, alle gelaterie-bar del Gallarone, la lunga piazza di Vallerano, come la chiamavamo noi ragazzi vignanellesi, ma pure i valleranesi.

A distanza di anni, ormai sono tanti, pur senza concentrarmi troppo a pensare, mi pare di sentire ancora adesso distintamente gli odori che impregnavano l’aria, erano graditissimi e giungevano a folate con il vento, a seconda del banco e della bancarella davanti alla quale ci trovavamo a passare.

Era l’odore dello zucchero filato, del croccante, del torrone che, ancora non indurito perché caldo, veniva rimescolato dal rivenditore con un lungo coltello su una lastra di marmo, della porchetta  appena  sfornata ancora fumante, dell’anguilla marinata (secca) sotto aceto, della frittura da poco ripescata dal grande padellone in cui bollivano litri e litri di olio, del cocomero appena tagliato, venduto a fette da 10 lire l’una,  tanto grandi che, senza spezzarle e dopo averne mangiato tutto il rosso e anche un po’ di bianco, ci arrivavano da un orecchio all’altro.

Noi ragazzi però, il primo assaggio di tutto questo ben di Dio, lo facevamo in uno dei bar, gustandoci col cucchiaino di legno un bel gelato misto dentro una canestrella da 30 lire, che oggi corrisponderebbero a qualche centesimo di euro, col quale non ne assaggeremmo nemmeno una leccata. Verso il tramonto rientravamo a casa per non arrivare tardi a cena e non farci richiamare dai genitori, onde non pregiudicare la libera uscita del pomeriggio e della sera della domenica che erano i pezzi forti della Festa che non volevamo perdere.

La domenica mattina, se non dovevamo andare in campagna con i genitori a dare il nostro contributo alla raccolta delle nocciole, verso mezzogiorno, appena usciti dalla Messa Cantata, eravamo già proiettati col pensiero alla sortita verso Vallerano. Dopo il pranzo, che anche di domenica era piuttosto frugale, ci incontravamo sotto gli Archi della Piazza.

Per raggiungere i luoghi della Festa, il più delle volte passavamo dal Borgo, dal Molesino, dalla Colonnetta e su, fino alle prime case del paese. Qualche volta invece, se volevamo aggiungere un po’ di spirito d’avventura al pomeriggio, passavamo dai vicoli del Solalizio, dalla Valle e dalla Stazione; percorrevamo la ferrovia che attraversa la Cupa e, scomparendo sotto la galleria, i’ tùnnele, raggiungevamo in pochi minuti la stazione di Vallerano e da lì, con una corsetta ci trovavamo al centro della Festa.

Non arrivavamo mai più tardi delle tre e già le strade, la Piazza e i vicoli del centro storico che salivano verso la chiesa di San Vittore, erano animatissimi. Verso le quattro del pomeriggio, prendeva il via dalla Chiesa del Santo, la processione. Il corteo che si snodava davanti e dietro la statua del Santo, portata a spalla da molti  facchini, era sempre molto lungo, variegato, ed animato dai canti dei fedeli e dagli inni religiosi suonati dalla Banda Musicale , magistralmente diretta dal Maestro Benedetti Cav. Otello.

Il percorso che faceva la processione, allora come adesso e da sempre, prevedeva il passaggio attraverso i vicoli che dalla Chiesa conducono alla Porta; uscita da questa giungeva in Piazza e la percorreva tutta, dal Monumento ai Caduti fino ai piedi della salita che porta al Poggiolo; da qui arrivava fin davanti alla Chiesa del Ruscello, prima di tornare sui suoi passi e fare una lunga sosta, in discesa, poco più avanti della attuale Bettala di San Vittore. Qui i facchini della Macchina la poggiavano sui cavalletti che erano già stati predisposti, rivolta verso la via che va diritta alla stazione. Quasi subito dopo , aveva inizio il Bombardamento da terra.

La Ditta incaricata dei Fuochi aveva già sistemato e disteso ai bordi della strada o appoggiato ad appositi sostegni, tutto il materiale esplosivo. Ne erano coperti tutti i marciapiedi ed il muro di cinta che circondava allora sul retro, tutto il grande giardino annesso al palazzo della signora Colla, come noi lo chiamavamo. E’ lo stesso edificio che si affaccia anteriormente su uno dei  lati della Piazza e sul suo lungo balcone del primo piano, dal quale qualche ora più tardi sarebbe stata estratta la Tombola da 100.000 lire.

Dunque, messa in posizione privilegiata la Macchina, fermatosi il corteo della processione, cessati i canti e gli inni della Banda, il capo-focarolo, dava fuoco alle micce e cominciava l’assordante bombardamento da terra.

Tra botti a terra, esplosioni in alto dei petardi che salivano verso il cielo, fumo che avvolgeva tutto e tutti e nascondeva alla vista le persone, le case e gli alti abeti del giardinetto, quasi si perdeva l’orientamento. Quando dopo lo scoppio dell’ultimo potentissimo petardo, la Banda riprendeva a suonare, e l’odore e il fumo degli spari erano quasi svaniti e l’aria tornava ad essere limpida e respirabile, la processione riprendeva il suo percorso a ritroso fino ad accompagnare San Vittore nella sua chiesa.

Terminata la processione e gli ultimi canti e le funzioni religiose, la folla si riversava tutta nella Piazza in attesa dell’estrazione della tombola, che ogni anno iniziava sempre con un notevole ritardo rispetto all’orario stabilito e stampato sul  Programma dei Festeggiamenti.

Per questa ricorrente manchevolezza, venivano addotti dagli organizzatori, di volta in volta, motivi più o meno validi e più o meno bevibili. Le malelingue dei tommolari e segnatamente quelle dei Vignanellesi, anche se lo dicevano scherzosamente, sostenevano che i motivi del ritardo erano sempre essenzialmente due.

Il primo: Non si iniziava l’estrazione fino a quando non erano state vendute tutte le cartelle dei cartelloni che erano stati stampati.

Il secondo: Si cominciava ad imbussolare le palle solo quando il comitato dei festeggiamenti veniva informato che quasi tutti gli ambulanti che vendevano porchetta, anguilla marinata, frittura, frittelle, dolci ed altro, avevano esaurito i viveri da vendere.

Non me ne vogliano i Valleranesi, ma queste erano solo delle battute scherzose dei tommolari incalliti, come sono e saranno sempre i Vignanellesi, che non vedevano l’ora di cominciare a giocare, stando in ansia ad ogni numero che veniva estratto.

Dopo poche  palle  estratte, venivano vinte la prima e la seconda cinquina. Si proseguiva per la tombola e, in men che non si dica, anche questa veniva vinta. Di tutte le tombolate a cui ho partecipato, ricordo che non sono mai riuscito a sapere ed a conoscere di persona un vincitore di una tombola. Una cosa particolare però la ricordo ed avvenne in uno dei tanti anni in cui giocai. Ero già grandino e, con alcuni dei soliti amici, amoreggiavamo con un gruppo di ragazze valleranesi. Stavamo proprio sotto al balcone dal quale veniva scandito e declamato a gran voce dall’addetto: “Nummero… Cinquanta nove!” (non si usava il microfono e l’impianto di amplificazione), numero che subito veniva girato sul grande cartellone metallico appeso in alto sul muro del palazzo che sta a metà della Piazza, sulla parete in cui campeggiava la vecchia scritta, ancora ben visibile in quegli anni: “…VINCERE E VINCEREMO”, che ora si è molto sbiadita.

Quella sera, era ormai buio, quando fu estratto il 75, il numero col quale fu vinta la tombola. Fu quello l’unico numero che quella volta bucai sulla mia cartella ancora vergine. Non escludo però, oggi, che qualche altro numero mi sia passato perché durante l’estrazione frequentemente parlavamo e scherzavamo con le nostre amiche.

A giochi fatti, con i compagni di spedizione facevamo come ogni anno un grande slalom per uscire dalla calca tra la gente che rincasava per la cena e poi una estenuante corsa per giungere a casa prima che le nostre famiglie avessero finito di cenare. Ma eravamo giovani, allenati, magri, agili ed avidi di esperienze nuove, non ci pesava niente.

Stavamo a tavola giusto il tempo di mandar giù in fretta ciò che la mamma aveva preparato, quasi senza assaporare ed accorgerci di cosa si trattasse, già paghi e contenti solo del fatto che non ci avessero strillati per il ritardo. Al primo momento favorevole, quando il babbo si alzava a prendere i fiammiferi per accendere una sigaretta o mentre la mamma andava a mettere a posto la cazzarola con lo spezzatino avanzato, ci alzavamo anche noi per sgattaiolare via e di corsa, ci radunavamo giù davanti al bar di Checco ‘e Rocchjetto, per ripartire, sempre di corsa, verso Vallerano.

La domenica sera di San Vittore, era un appuntamento al quale  non ci andava di mancare. Una volta usciti di casa, le strillate o gli scapaccioni, pure se ci fossero scappati, potevano venire il lunedì mattina, a cose fatte; il piacere, il godimento, la soddisfazione già gustati la sera avanti, non ce li poteva ormai togliere niente e nessuno.

Quando eravamo tutti, via, su per il Borgo, il Molesino, la Colonnetta, le prime case di Vallerano e poi ’a scortatora, la scorciatoia: uno stradelletto ripido, una specie di scivolarella, uno scivolo sterrato. Era un viottolo in forte pendenza, che c’è ancora adesso , ma ora è ben sistemato ed è diventato una scaletta ed un vialetto illuminato, percorribile agevolmente anche di notte. Allora invece era sassoso, con ai lati piante di rovi ed altri arbusti che mentre si passava ti battevano sulla faccia e poi il fondo stradale era tutto radici di alberi affioranti, buche, e sassi che sembravano messi ad arte per farti inciampare o scivolare. Noi però, sempre giù, a passo svelto o di corsa per non arrivare tardi.

Si sbucava sul viale che conduce alla stazione della Roma Nord, ormai chiusa e in disarmo da un po’ di anni. Bastava attraversare  il viale, salire il breve tratto di strada in salita che ci separava dalla Piazza e ci trovavamo sotto il cartellone della tombola. A non più di una decina di metri, c’era il palco semicircolare, rialzato di qualche metro rispetto al pavimento, pronto ad accogliere la Banda. Veniva allestito qualche anno sul lato destro della Piazza tra il bar di Augusto Piccioni e la salita che conduce alla torre, e qualche anno dalla parte opposta, affiancato al palazzo Colla.

Mi si presenta ora davanti agli occhi, all’improvviso, una immagine sfocata e vaga e difficile da inserire in una delle serate della Festa: l’innalzamento del Pallone, come lo chiamavamo familiarmente, ma che sui manifesti aveva il nome altisonante di Globo Aerostatico. Ricordo di averne visti partire tanti, ma non ricordo in quale serata venivano lanciati.

Quando giungevamo in Piazza, la sera del lancio, il Pallone era già ben in vista, sgonfio naturalmente, tutto variopinto, appeso ad un’asta di legno che sporgeva orizzontalmente dall’inferriata del lungo balcone della, ormai familiare per noi, signora Colla, della quale (tanto ormai siamo di casa), vorrei ricordare con piacere anche i suoi tre figli, che sono più o meno miei coetanei: Roberto, Gianni e Maria Vittoria.

Torniamo al Pallone appeso allo spago. All’orario stabilito, veniva acceso nel contenitore posto alla base, il combustibile necessario per riscaldare l’aria all’interno dell’involucro di carta colorata. Dopo qualche minuto che era stato acceso il fuoco, l’aria calda cominciava a far gonfiare il Pallone, che già provava a sollevarsi da terra. Se non ricordo male, mi pare che per alcuni anni l’artefice, o meglio il Deus ex machina, dal confezionamento al lancio, fosse un certo Simone.

Quando finalmente il Pallone era ben gonfio e turgido, da varie parti della Piazza si alzavano voci  spesso discordanti  indirizzate al  Deus Simone : “Simo’, taglia!”, “Simo’, ‘spetta ‘nantro po’, è presto pe’ taglia’!”, “Simo’, dagli più foco!” E così via, fino a quando Simone pronunciava il fatidico : “Taglia!”, indirizzato al suo aiutante che stava sul balcone, pronto a tagliare lo spago, il cordone ombelicale che ancora tratteneva il Pallone.

A questo punto la Banda attaccava il Marcione di accompagnamento al lancio, tra gli applausi e le grida inneggianti di: “Viva San Vittore!”. Il Globo Aerostatico si alzava, dapprima incerto e lento, poi rapido ma ondeggiante, tanto da strappare alla folla trepidanti e lamentosi: “Oh! Oh!  Oh!”.  Poi saliva sicuro e verticale, superava spedito il colmo dei tetti delle case, poi su su, dritto e veloce verso il cielo, fino a diventare solo un puntino luminoso ed a confondersi, stella con le stelle nel firmamento estivo che sovrastava Vallerano.

Questa digressione il Pallone se la meritava anche perché, Feste, Tombole, Bancarelle, Bande, Processioni ed altre manifestazioni simili se ne vedono tante, ma di Palloni o Globi Aerostatici, ne vengono lanciati pochi, sempre di meno, sono rarissimi. Erano belli! Avevano un loro fascino, quasi mi sembra che portassero verso l’alto i sogni, i desideri, l’anelito stesso di ogni persona di innalzarsi, di distaccarsi per un po’, dal grigiore che spesso avvolge la vita di ogni giorno.

Mentre abbiamo assistito con la fantasia al lancio del Globo, il nostro gruppo di amiconi è arrivato in Piazza.

Eravamo ancora, allora, degli adolescenti in cerca di esperienze ingenue, pulite, trasparenti e proprio per questo positive, lontane le mille miglia dalle attuali scorrerie indicibili, esecrabili e che poco hanno di umano e di edificante. Parlo, tanto per capirci meglio, delle “gesta” di qualche “branco” delle periferie urbane o di alcuni figli delle “famiglie bene” della attuale società annoiata, che fanno accapponare la pelle a noi ragazzi dell’ultimo dopoguerra ormai anziani, ma questi “rampolli annoiati” della “alta società”, hanno una scusante (!!): fanno queste azioni per distrarsi, per evadere dalla noia del tran-tran giornaliero, per vivere esperienze diverse!

Ora torniamo al centro de Gallarone, dove la Banda Musicale si sta pian piano radunando e qualche musicante sta già  scaldando il suo strumento. Un po’ alla spicciolata, arrivano pian, piano tutti quanti. Molti arrivano da soli , con in braccio il loro strumento, tenuto con cura e con tutte le precauzioni come fosse il loro primogenito neonato. Altri a braccetto di qualche familiare, qualche fan o qualche collega. E’ passato poco tempo dalla cena! A seconda delle preferenze, ognuno ha ancora in bocca il sapore del pollo arrosto, della porchetta, della frittura o dell’ultimo bicchiere di vino buono, quello che in tempi molto lontani veniva chiamato il  bicchiere della staffa, bevuto dai cavalieri che avevano già un piede infilato in una delle staffe della sella, in procinto di partire per lunghi ed avventurosi viaggi o per guerre sanguinose e, a volte, senza ritorno.

Qualcuno dei musicanti è un po’ rosso in volto e lucido di sudore, colpa del caldo afoso di agosto, degli inni suonati durante tutta la processione del pomeriggio e di qualche bicchierino di troppo bevuto durante la lunga cena. Però da casa alla Piazza e sul palco ci si va a piedi, non si prende la macchina e, anche se così fosse, non è ancora in dotazione alle forze dell’ordine l’etilometro. Ma poi, pure con qualche grado in più nel corpo, lo strumento va e suona meglio che a digiuno. Parole testuali di più di un musicante.

Nel giro di una decina di minuti la Banda è quasi al completo. Manca però, ancora, il meglio: i Solisti; e il meglio del meglio: il Maestro concertatore e direttore d’orchestra Benedetti Cav. Otello.

I solisti erano una inveterata e piacevole consuetudine di Vallerano. Erano dei bravissimi suonatori di tromba, cornetta o altro strumento particolare, che suonavano insieme alla Banda e in alcuni brani d’opera, si esibivano in degli  assolo con particolare abilità, davano lustro e tono all’esibizione e mandavano in delirio i numerosissimi spettatori.

 

 

Ne sono venuti tanti e per tanti anni a Vallerano. Di solito erano appartenenti a Bande Musicali di Corpi Militari (Carabinieri, Polizia o Finanza), ma io e credo molte altre persone, e non solo di Vallerano, ricordiamo in particolare un  cornettista  del quale sono sicuro soltanto del suo cognome: Agostinelli. Insieme a lui ne ricordo un altro, suonatore di tromba che chiamavano tutti  Totò, ma non so bene se fosse il suo vero nome, seppure storpiato o il suo soprannome.

Agostinelli era conosciuto ed apprezzato da tutti. Era, come si usa dire da noi,  alla mano, e tutti si affollavano intorno a lui per vederlo da vicino e magari stringergli la mano. Se fosse stato adesso, molti gli avrebbero chiesto l’autografo, ma tra noi, paesani di allora, non era ancora di moda e, mi pare, nemmeno conosciuta questa usanza.

Quando mancava ancora qualche minuto all’inizio del Trattenimento Musicale, arrivava il Maestro. Anche per lui, e più che per gli altri, c’erano espressioni di stima e di affetto, auguri e complimenti sinceri, strette di mano e qualche abbraccio dai sostenitori più intimi e calorosi. Gli piaceva concedersi, stava volentieri tra la gente, per tutti aveva sempre un saluto, un sorriso un complimento, un apprezzamento sincero. Oltre che per le sue doti di Maestro della Banda, era inoltre molto stimato come persona brava e capace, tanto che per alcuni anni è stato anche sindaco del paese.

Finalmente il Maestro giungeva nei pressi della scaletta del palco, si ricomponeva nel suo impeccabile doppio petto nero, saliva sul podio e riceveva un ulteriore applauso di incoraggiamento da tutta la platea della Piazza gremita di gente.

 

 

Tutti i musicanti erano al loro posto; il bidello aveva già distribuito a tutti gli spartiti dei pezzi della serata ed aveva inserito nell’apposita cornice, ben in vista per il pubblico, il cartoncino con sopra stampato il titolo e l’autore del primo brano d’opera o della sinfonia che sarebbe stata eseguita. Ancora uno sguardo di ricognizione al semicerchio del palco, poi, impugnata la bacchetta, due o tre colpetti lui leggio per attirare l’attenzione di tutti i musicanti e il Maestro dava il segnale dell’attacco del primo brano.

Nella Piazza molto affollata e rumorosa, d’un tratto s’era fatto silenzio ed ora risuonavano solo le note. Tutti stavano con l’orecchio teso, ma gli occhi avevano un solo comune obiettivo: il Direttore d’orchestra. Era uno spettacolo nello spettacolo: le movenze di ogni parte del suo corpo nei momenti più significativi del brano: ora con l’indice o con la bacchetta dava l’attacco ad un solista; ora con un cenno della testa sollecitava l’intervento di un  “ottone” o di un timpano; ora con un ampio gesto di una mano chiedeva l’appoggio per un “crescendo” ad un intero settore; ora con entrambe le braccia, abbassate prima e alzate poi, rapidamente e con le mani aperte, quasi lanciate verso l’alto, sollecitava uno squillante colpo ed una spinta dei  “piatti”, più in alto che potesse, da parte di Arnaldo, il suo piattista  infallibile, il quale fin dall’inizio del pezzo non aspettava altro, tanto che, da quasi rannicchiato che stava prima, alla sollecitazione del maestro, letteralmente esplodeva verso l’alto proiettando i suoi piatti talmente verso il cielo che sembrava volesse seguirli nel volo con tutto il suo corpo , tanto da chiudere il suo intervento in punta di piedi.

E così di seguito si arrivava al disegno del cerchio immaginario tracciato con rapidità nell’aria da tutte e due le braccia aperte, dall’alto verso il basso, che segnava la conclusione, quasi sempre in un “crescendo fragoroso” del primo brano.

Il maestro allora si voltava verso il pubblico, faceva un ampio gesto con le braccia per ringraziare degli applausi e, spesso e volentieri, riceveva dai suoi ammiratori anche il lancio di alcune manciate di confetti bianchi, si, proprio quelli degli sposi, che, ricordo, una volta gli procurarono un piccolo bernoccolo sulla spaziosa fronte.

Questo era solo l’inizio, perché la serata  proseguiva, come in un “Crescendo Rossiniano”, per circa un paio d’ore, tra brani, sinfonie ed anche qualche zibaldone-collage delle arie più note delle canzonette in voga in quegli anni, fino agli ultimi “pezzi forti” in cui c’erano intercalate le esibizioni di Agostinelli, di Totò e degli altri solisti. Mi sembra ancora di sentir risuonare le note di “Casta diva”  (Norma), “Amami Alfredo”  (La Traviata),  “E lucevan le stelle”  (Tosca),  “Mamma quel vino è generoso”  (Cavalleria Rusticana),  “Marcia Trionfale”  (Aida).

Un anno, per concludere la serata, Zsor Otello, così lo chiamavano affettuosamente i Valleranesi, fece eseguire un pezzo che in cartellone era definito: “Concerto di Mezzanotte”, appunto perché suonato per ultimo, intorno alle 24. Non ho mai saputo o ricordato se fosse un brano d’opera,  né  tantomeno chi ne fosse l’autore, fatto sta che fu una gran bella sorpresa, gradita a tutto il pubblico e di grande effetto scenico.

La Banda iniziò il brano e dopo un po’ iniziò l’assolo di un solista. Era bravissimo, ma non era Agostinelli. Ad un certo punto, il maestro gli diede lo stop e si rivolse, quasi verso il cielo, in direzione del punto più alto del Torrione che sovrasta una delle due porte di accesso al Centro Storico, in cui allora aveva sede la Residenza Comunale. Nel silenzio creatosi con lo stop improvviso ed inatteso imposto alla Banda e la sorpresa che aveva ammutolito la Piazza, da una finestrella dell’ultimo piano del Torrione uscì il suono melodioso ed argentino della cornetta di Agostinelli il quale, non visto dal pubblico che era tutto preso a seguire l’assolo dell’altro solista, era arrivato sgattaiolando tra la folla fin lassù.

Nella penombra della luce fioca della finestrella, Agostinelli cominciò a duettare con l’altro solista parimenti bravo, mentre il maestro, immobile e irrigidito sul podio, a braccia conserte si beava guardando, ed ascoltando estasiato, ora il solista che gli stava di fronte sul palco, ora l’altro, alzando lo sguardo verso la finestrella illuminata del Torrione. Li lasciò musicalmente dialogare per alcuni minuti, fino a quando, quasi al termine del pezzo, i due artisti si riunirono sul palco, dopo che Agostinelli  era disceso dalla sua postazione temporanea ed aveva fatto una corsetta tra la folla.

Conclusero la loro serata e quella della Banda esibendosi in un duetto impegnativo e molto bello, con un finale che strappò applausi a non finire e mi pare che dovettero, a grande richiesta,  concedere anche un bis.

 Noi ragazzi ci radunavamo alla spicciolata,un’ultima canestrella di gelato, qualche pezzetto di croccante da mangiare senza fretta lungo il rientro e poi tutti a nanna.

Per l’ultimo giorno, il programma dei festeggiamenti prevedeva altre iniziative, ma ancora eravamo sazi dei giorni trascorsi e poi a Vignanello era un giorno di lavoro. Ci sarebbe stato da rispettare l’appuntamento finale per l’ultima sera: il Bombardamento Aereo, ma, diciamo, non era d’obbligo; ognuno si regolava come meglio credeva, a seconda dei suoi gusti. E poi le Bombe si sentivano e si vedevano anche da Vignanello andando alla Valle o a Talano. I Fuochi erano pure, in un certo senso, belli, ma erano lontani, non vedevi nessuno degli artefici; erano solo esplosioni, lampi, bagliori, piogge multicolori di piccole stelle cadenti, ma niente rapporti umani, caldi ed immediati. Almeno per quanto mi riguardava, la festa di San Vittore, era per me: la Piazza, la Processione, il Pallone, quando veniva fatto, la Banda, i Trattenimenti Musicali ed il Maestro Benedetti Cav. Otello.

L’ultima volta in cui l’ho visto dirigere una Banda, è stato un po’ d’anni dopo e non a Vallerano, ma al Campo Sportivo di Civita Castellana. Ero ormai grande; insegnavo in questa cittadina. Con la mia classe, una terza elementare, partecipavo al Saggio Ginnico di fine d’anno, organizzato dalla mia Direzione Didattica: era maggio o giugno 1965. Fu una manifestazione che impegnò per la sua preparazione alunni ed insegnanti per diversi mesi e molte ore anche al di fuori del normale orario scolastico di insegnamento.

Il settore musicale che faceva da supporto e da colonna sonora agli esercizi ginnici era stato affidato  alla Banda Musicale della Provincia di Viterbo, fondata, preparata e diretta, manco a dirlo, da lui, dal Maestro Benedetti. Il complesso bandistico, il cui nucleo portante era stato reclutato dal Maestro tra i suoi migliori allievi di Vallerano, durante tutto il saggio, non denotò la benché minima sbavatura. Accompagnò in maniera impeccabile l’esecuzione degli esercizi ginnici ed al termine ricevettero, Maestro e musicanti, applausi e complimenti da tutti gli intervenuti.

 Se non ricordo male, proprio in quella occasione, il Maestro Benedetti fece eseguire alla Banda, una marcia sinfonica che era una sua creazione, che mi pare fosse intitolata “Etruria”.

Ancora oggi, ad anni di distanza dalla sua scomparsa, delle Bande e delle musiche da lui dirette, tutti quelli che le abbiamo sentite suonare, conserviamo un ricordo indelebile ed  è viva ed è piacevole ricordare soprattutto l’immagine del Maestro direttore d’orchestra, insieme al fascino che la sua persona emanava.

Non è un caso, ma un segno di stima e di merito, proprio come  scrive Ugo Foscolo, nei suoi  “Sepolcri”, in un magnifico e melodioso verso: “Giusta di gloria dispensiera è morte”, che Vallerano abbia intitolato una Via al Maestro ed altrettanto abbia fatto Viterbo, intitolandogli una Via per ricordarlo perennemente, nella città in un rione in cui le strade portano il nome di altri insigni musicisti italiani. Queste vie sono intitolate a: Francesco Soriano e Giuseppe Ferrata, due musicisti del passato nati e vissuti nella nostra provincia ; mentre altre, vie, ci ricordano grandi glorie della musica italiana, conosciuti in tutto il mondo, che sono: Claudio Monteverdi , Gaetano Donizzetti, Gioacchino Rossini e  Giacomo Puccini.

 

 

              Gennaio 2012                                                          Lillo Pacelli