09.12.11
Ricordi, aneddoti, considerazioni ed altro,
intorno a Don Luigi Calvanelli

di Lillo Pacelli

 

Proverò, ma non so se ci riuscirò, a restare entro il tema che mi sono prefisso, sia perchè è molto ampio e i ricordi sono tanti, sia perchè io sono sempre un po’ prolisso e spesso divago, sia perchè sono tanti gli anni vissuti da don Luigi. Oltre a questo, ho avuto modo, soprattutto da grande, di starci in contatto ed ho avuto con lui diversi rapporti.

Comincio “ab ovo”, cioè da quando il nostro prete “cantò Messa” per la prima volta.

Non ricordo la cerimonia, ma l’anno in cui avvenne fu il 1947. In quella data, quando fu ordinato sacerdote non aveva ancora compiuto 26 anni, essendo nato nel 1922.

 

Avevo otto anni e non riuscivo a capire cosa volevano significare “i grandi” quando dicevano: “Don Luigi non avrebbe potuto “Cantar Messa”, perchè non aveva abbastanza anni, allora gliel’ha prestati l’Abate”. Per i Vignanellesi, in quegli anni, l’Abate veniva semplicemente chiamato così, con questo titolo, senza chiamarlo per nome: era l’Abate per antonomasia, era don Venturino Bracci.

Io, bambino, ricordo che passava per le vie del paese con incedere lento, ben eretto, sempre in compagnia di qualche suo coetaneo o suo amico e sembrava inavvicinabile, tanto appariva severo e maestoso. Noi ragazzi quando lo vedevamo, non facevamo chiasso, interrompevamo i giochi e con devozione, quasi fosse il Papa, ci avvicinavamo per andargli a baciare la mano. Egli allungava, porgendocelo, il braccio e noi gli baciavamo l’anello che aveva al dito.

L’Abate era un “personaggio”. Nell’ambito ecclesiastico poteva fare di tutto; quindi fare e disfare, e perchè no, soprattutto per noi ragazzi, “prestare anche gli anni”, anche se non capivamo come diavolo facesse. Lo capimmo anni più tardi. Il seminarista allora, mi pare, che non potesse celebrare la “Prima Messa”, cioè ricevere il Sacramento dell’Ordine, prima di aver compiuto il 26° anno, a meno che un altro sacerdote, meglio se maturo ed autorevole, garantisse per lui e quasi si assumesse la responsabilità di quel Sacramento: “l’Ordinazione Sacerdotale”.

 


Don Luigi in seminario (in alto, il secondo da sinistra)

 

Don Luigi quindi, ordinato sacerdote, divenne il collaboratore dell’Abate nella conduzione della Parrocchia di Santa Maria della Presentazione.

Oltre a tutte le incombenze che la missione comportava, il giovane parroco si dedicò in particolare alla cura dei giovani e non avrebbe potuto essere altrimenti. Si circondò di molti ragazzi e ragazze, li organizzò, li coinvolse in molte attività e divenne il loro punto di riferimento.

Diede nuovo impulso all’Azione Cattolica, organizzò colonie estive in paese e periodi di campeggio in località montane: alla Palanzana, sui vicini Monti Cimini, a Camaldoli nel Casentino, in Toscana, a Villetta Barrea ed in altre località dell’Abruzzo.

Per alcuni anni, in collaborazione con un altro giovane sacerdote di Civita Castellana, don Checchino Iannoni, mandò in vacanza, sempre in estate, gruppi di ragazzi e ragazze a Sesto in Val Pusteria, nel Trentino.

Chi ha vissuto anche una sola di queste esperienze, ne conserva ancora un bellissimo e nitido ricordo, anche se ormai, come il sottoscritto, è in età avanzata, non ancora vecchio ma, diciamolo con un eufemismo: “E’ un po’ granne!”.

 

Il ricordo in me più vivo e piacevole è legato alla quindicina di giorni che trascorsi al campeggio sulla Palanzana, nel settembre del 1956.

Don Luigi quell’anno organizzò il Campeggio in un convento dei frati che si trova ai piedi della Palanzana e che si raggiunge passando da La Quercia, salendo verso la montagnola vicina al Cimino, percorrendo una stradina, allora ancora di campagna, per circa 4 chilometri.

Io mi unii ai campeggiatori quando il soggiorno era già iniziato da alcuni giorni. Prima avevo dovuto studiare perchè ero stato rimandato in latino e avevo dovuto sostenere gli esami di riparazione .

In quegli anni era un fatto del tutto normale per molti studenti, specialmente alle Superiori, essere rimandati in una o più materie e, nonostante questo, non subivamo alcun trauma e riuscivamo a completare gli studi con successo ed anche un po’ più preparati, fino al conseguimento del Diploma. Ma torniamo al campeggio.

Era la prima volta che lasciavo la casa e la mia famiglia per alcuni giorni. Fu una settimana indimenticabile. Tutto era ben organizzato, dalla sveglia al mattino, ai posti, alle “uscite”, agli incontri tra gruppi, alle varie attività, alle ore di riposo diurne e notturne, ai momenti di discussione e di riflessione su vari argomenti, guidati da don Luigi.

Egli era sempre presente, o partecipando direttamente a giochi ed attività o controllando la situazione senza far pesare la sua presenza.

Una delle attività che ci impegnava di più e ci divertiva era la preparazione dei due pasti principali di ogni giorno; il pranzo e la cena. Facevamo tutto noi ragazzi più grandi, divisi in due squadre di quattro o cinque componenti ciascuna, che ci avvicendavamo in turni di due o tre giorni. Di una facevamo parte io, Pierino Stefani, Augusto Petti e Giuseppe Lagrimanti (per tutti noi però, era Peppino), che era di alcuni anni più grande di noi ed era il nostro capogruppo (vedi foto).

Nazzareno Bracci (per tutti Nèno) e Bruno Olivieri, miei coetanei, ed altri due o tre ragazzi, erano i componenti della seconda squadra addetta alla cucina.

Dovevamo però programmare, preparare e servire soltanto il primo piatto per il pranzo e per la cena. Per la seconda portata sia a pranzo che a cena, avevamo a disposizione, come anche per la colazione e la merenda, i cibi conservati in scatola della P.O.A. (Pontificia Opera Assistenza), che Don Luigi ci metteva a disposizione senza alcuna restrizione, almeno così mi parve.

Di quei giorni ricordo in modo particolare due pranzi preparati e serviti dalla mia squadra. Sarebbe però troppo lungo rievocarli in modo esauriente, anche se sarebbe, credo, molto divertente per me riviverli e per voi leggerli. Per cui, tralasciamoli almeno per adesso.

Insomma tra escursioni, discussioni, giochi e pasti più o meno mangiabili e graditi,trascorsero tutti i giorni di quella vacanza estivo-autunnale. Ogni tanto, sempre molto attese e gradite, c’erano le visite dei parenti che giungevano fin lassù ai piedi della Palanzana in motocicletta, vespa e lambretta, accompagnate, sempre, dall’arrivo di ciambelloni, ciambelle di vario gusto e tipo, tozzetti, crucchi, meringhe ed altre specialità vignanellesi, regolarmente appannaggio di tutti i campeggiatori.

Tutto terminò negli ultimi giorni di settembre, quando rientrammo in paese insieme al nostro accompagnatore e guida materiale e spirituale don Luigi.

Negli anni successivi, tra studio, prima e lavoro, poi, pur incontrandolo sporadicamente per il paese o in riunioni e incontri aventi per oggetto le tematiche più varie, ho avuto modo di apprezzare sempre e ovunque, del personaggio: la schiettezza, lo spirito costruttivo, la facilità di intrattenere rapporti cordiali con tutti, la viva intelligenza, l’intraprendenza, la sensibilità ai problemi dei giovani e degli anziani, la cultura intesa nel senso più vasto  del termine, che spaziava dall’ambito a lui più congeniale, quello religioso, a quelli più disparati, l’attaccamento alla nostra comunità ed alle radici prettamente agricole dei Vignanellesi ed ai loro problemi anche giornalieri.

Verso la fine degli anni Cinquanta, quando passò a miglior vita il vecchio abate monsignor Venturino Bracci, il principe don Francesco Ruspoli, avvalendosi della atavica tradizione del diritto di investitura a lui riservato, nominò don Luigi  Abate della Collegiata.

In qualità di responsabile della parrocchia, avviò o portò a termine, con il contributo non solo morale della cittadinanza, alcune iniziative finalizzate a realizzare strutture permanenti che potessero accogliere i Vignanellesi in periodi di tempo libero , sia brevi che lunghi. Gettò le basi per il Villaggio Talano che però non è mai riuscito a portare a compimento dopo un incoraggiante avvio; acquisì alcune aree e le dotò di manufatti abitativi fruibili per le vacanze estive, nei pressi del Lido di Tarquinia in località Spinicci; acquistò dei castagneti nella zona dei Cimini , nelle vicinanze di Canepina ed anche qui costruì alloggi per periodi di vacanze; fondò il Circolo Giovanni XXIII, mettendo a disposizione i locali che a Vignanello conosciamo col nome di “Bottegone”; ereditato il lascito dei benefattori Maddalena Piccioni e Lamberto Lelli, consistente nell’intero stabile che si affaccia sulla “Valle”, lo adibì a ricovero per anziani, costituendo l’ente “Pro Senectute”, che è stato operativo fino a qualche tempo fa; ha dato voce a “Radio Domani”, la sua emittente che, anch’essa è stata attiva per tantissimi anni.

Insomma don Luigi non è stato un prete che si è limitato a celebrare le messe, ad amministrare i sacramenti o a sfilare in processione, cosa quest’ultima che, mi pare, non lo entusiasmasse affatto. Ha operato e, come si sa, è inevitabile che chi opera può anche sbagliare qualcosa; qualche dettaglio a volte, pur senza dolo dell’operatore, non va per il giusto verso; qualcuno critica spesso più a torto che a ragione, ma di queste persone che fanno tanto per il bene altrui, anche se con qualche neo, penso sia sempre doveroso dire: “Laudanda est voluntas” .

A qualche anno dall’inizio della sua missione, quando però era già abate, per un periodo abbastanza lungo, tra don Luigi e il sindaco di Vignanello, che per parecchi anni fu Amleto Annesi, eletto dalla Sinistra, ci fu un clima di contrapposizione e di scontro tra i due schieramenti politici: la Sinistra, guidata dal suddetto sindaco e la coalizione di Centro Destra che facendo riferimento alla politica nazionale, era composta allora da DC, PSDI, PLI e PRI.

Per certi aspetti, sembrava di vivere il clima arroventato, politicamente parlando, di Brescello, il paese della Bassa Padana, in cui lo scrittore Giovannino Guareschi aveva ambientato gli accesi ed esilaranti diverbi e scontri, anche fisici, tra Don Camillo, l’aitante parroco del paese e il sindaco comunista Peppone Bottazzi. Proprio come accadde nel Delta Padano, a Vignanello cominciammo ad avere “due ore”: quella di don Luigi segnata dall’orologio della Collegiata scandita dai rintocchi delle campane e quella dell’Amministrazione Comunale segnata dal grande orologio elettrico con un vistoso quadrante, affisso sopra il balcone del Palazzo Comunale.

Anche le ore canoniche delle “Otto”, del “Mezzogiorno” e delle “Cinque” del pomeriggio, prima scandite soltanto dai rintocchi del campanile della Chiesa, erano in quegli anni annunciate anche dal sibilo di una sirena che l’Amministrazione Comunale aveva fatto istallare sul tetto dell’edificio delle Scuole Elementari, al Molestino.

La stessa cosa avvenne per il 1° Maggio. Cessò di essere un appannaggio soltanto dei Rossi che sfilavano per le vie del paese con la banda musicale in testa, che a tempo di marcia suonava:

“Su fratelli e su compagni , su venite in fitta schiera!… ecc.” I Compagni andavano a celebrare la Festa dei Lavoratori, a Talano e qui tra canti ed inni vari, suonati da gracchianti giradischi, nei chioschi appositamente allestiti, venivano distribuite gratuitamente pagnottelle imbottite di mortadella e vino a volontà, per tutto il pomeriggio fino al calar della sera.

Anche l’ACLI, spronata da don Luigi, cominciò a organizzare il suo “Primo Maggio” che inizialmente però era un po’ in tono minore rispetto a quello “Rosso”.

Andando di questo passo poi, anche nelle giornate delle campagne elettorali, in occasione delle elezioni politiche nazionali, ma ancor di più per quelle comunali, molto più sentite ed accese, il gruppo più vicino a don Luigi, quasi ispirandosi a Don Camillo ed alle sue trovate, rivaleggiava con le stesse armi dei “compagni” del sindaco Peppone, a volte rimbeccandosi a vicenda con manifesti offensivi (politicamente) o con parodie di motivetti in voga, cantate da improvvisati artisti paesani, con grande passione.

Sempre durante le campagne elettorali, non di rado, i comizi di uno schieramento politico, talvolta erano disturbati dagli avversari con automobili strombazzanti o che diffondevano musica o dai rintocchi delle campane che suonavano ad ore insolite o più a lungo del consueto, nel bel mezzo del momento più saliente del comizio della controparte.

Con don Luigi insomma non ci si annoiava. In ogni manifestazione paesana, indipendentemente dal suo colore o tendenza, si avvertiva la sua presenza, a volte critica e severa, a volte scherzosa, divertente e un po’ scanzonata. Ogni anno c’era l’immancabile polemica con il Comitato dei festeggiamenti dei Santi Patroni riguardo alle manifestazioni da mettere in calendario, e, ogni anno, c’era la sua filippica contro l’eccessiva spesa per “i bòtti”. Fino alla fine è rimasto dello stesso papere, però non ha mai avuto la soddisfazione di essere esaudito.

Da alcuni anni, ormai, era andato in pensione, almeno ufficialmente, ma di fatto, tranne negli ultimi tempi, ha continuato a dirigere la parrocchia affiancato dal nuovo parroco don Giuseppe Aquilanti.

Quando io sono stato responsabile della Sezione AVIS del nostro paese, tra il 1995 e i primi anni del 2000, ho avuto modo di incontrarlo spesso in concomitanza dell’organizzazione delle annuali feste sociali di noi donatori di sangue. Di comune accordo, sempre, abbiamo deciso l’orario e lo svolgimento delle Messe per l’AVIS, che in quegli anni sono state celebrate sempre nella mattinata dell’ultima domenica di ottobre.

Era sempre molto felice di ospitarci in Collegiata. Nelle sue omelie, durante le Messe, non ometteva mai gli elogi per la nostra attività di donatori e ci spronava vivamente a migliorare ed a proseguire instancabili nel nostro impegno. Puntualmente ogni anno molti rappresentanti delle sezioni AVIS della nostra provincia e quelli di sezioni provenienti dalle regioni limitrofe, intervenuti alla nostra Festa Sociale, andavano ad esprimere personalmente la loro gratitudine a don Luigi, per le sue parole finalizzate a spronare tutti gli Avisini a continuare ed a migliorarsi nel loro impegno in favore del prossimo. Sempre, durante le Messe in occasione delle Feste Sociali, quando talvolta glielo abbiamo chiesto, molto volentieri ci ha messo a disposizione il suo pulpito ed il suo microfono, incoraggiando i nostri interventi.

Nelle numerose volte che l’ho incontrato, parlando a volte anche un po’ a lungo, entrambi presi dai ricordi dei soliti “bei tempi lontani”, rievocavamo i rapporti interpersonali dei Vignanellesi di prima, e ci lasciavamo andare, sia io che lui, a descrivere ed a rievocare, quasi a far rivivere: usanze, personaggi, modi di dire e di fare e di pensare, che ora sono del tutto scomparsi.

Gli piaceva ricordare la “povertà” diffusa in vari strati sociali del nostro paese, povertà che però era sempre vissuta con una certa dignità. Ricordava con un sorriso, che gli faceva brillare gli occhi, sempre vivi e penetranti, gli odori e i sapori dei cibi di allora: l’aroma del pane appena sfornato e della prima “pizza a ppiccià”,appena cotta nei grandi forni a legna sparsi tra i vicoli del nostro vecchio centro storico; il piacere di gustare “i’ ppane co’ i’ ppommidoro”, “i’ ppane co’ l’oglio” o la frutta appena portata dalla campagna e assaporata ancora fresca e grondante dalla guazza del mattino.

Proprio quest’ultima immagine, me ne richiama ,ora, alla mente un’altra che vale la pena di ricordare perché mette in risalto una, fra le tante preferenze  del nostro parroco.

Non ricordo con precisione l’anno, ma sicuramente era tra il 2000 e il 2002, verso la fine di settembre. Ero in quegli anni presidente della sezione AVIS del nostro paese e proprio in quei giorni dovevo, come ogni anno, andare da lui per concordare insieme gli orari e le modalità del momento religioso dell’annuale Festa Sociale.

Una mattina, verso le 11, tornando dalla campagna e ancora in divisa da lavoro, parcheggiai la mia Panda proprio di fronte all’ingresso della sacrestia e una persona che ne usciva, mi disse che il parroco c’era. Lo trovai che stava metà nascosto e metà immerso tra libri, opuscoli, giornali, locandine e...  bollette da pagare, dietro al suo capientissimo e straripante tavolo.

Mi accolse con cordialità, come era suo costume. Parlammo e ci accordammo su tutti i particolari della cerimonia per la quale mi ero recato da lui. Mentre lo stavo per salutare, mi domandò: “Che sì ‘nnato a fa’ fòra stamattina!”. Gli risposi anch’io in vignanellese: “Don Luì, adesso se pigliono su ‘e nocchje. Io le piglio su a mano! Tutta stamattina so’ stato in ginocchio a piglià su! Quanti paternostri ho detto! Però ‘gni tanto, me arzeo su, c’era vicino ‘na pianta ‘e fico e, fresche fresche, le magneo tre quattro!”. Mi rispose sorridendo: “Beato te! So bbone ‘e fico, specie quelle gocciolute!!”.

Lo lasciai appena terminare l’ultima parola: uscii dalla sacrestia, presi dalla macchina il secchiello di fichi che avevo raccolto per portare a casa e tornai da lui. Erano proprio “ ‘e fico quelle gocciolute”. Gliele porsi. Ne mangiò con gusto in mia presenza un paio. Mi ringraziò sentitamente e aggiunse. “Quest’addre le magno tra un po’, oggi a pranzo e gliele faccio ‘ssaggià pure dall’anziani”.

Quasi tutti gli anni, di quei giorni, ci sono tornato, per fargliele ancora gustare. Anche l’anno scorso, verso gli ultimi giorni di settembre, avevo in mente di tornarci, ma quando ho saputo che non stava bene, non mi sono mosso. Ora che non c’è più, mi dispiace moltissimo di non esserci andato: sarebbe stato per lui un ultimo momento di gioia, l’ultima volta che avrebbe assaporato i frutti della nostra terra di Vignanello, che tanto ha criticato,compresi i suoi abitanti, ma che tanto ha pure amato nella sua vita terrena, fino all’ultimo.

Mi piace infine ricordare del nostro parroco una omelia, di pochi anni fa, durante il funerale di una persona giovane.

Cercando di lenire il dolore di parenti e amici per la perdita della persona cara, propose  uno dei suoi estemporanei e spesso inimmaginabili paragoni che gli uscivano, credo, lì per lì. Naturalmente non ricordo le sue parole testuali, ma il senso di quanto disse fu questo:

“Certo, il distacco dal vostro caro è molto traumatico e lascia un grande vuoto in tutti voi, ma come avviene spesso in questi casi non prendetevela né con il Padre Eterno, né con Gesù Cristo né con Qualcun altro, perché ve lo hanno portato via. Non è stato nessuno di loro a farlo morire. Ormai, parecchi di voi , siete abbastanza grandi, ma credo che ricorderete ancora i giorni di quando eravamo bambini e la Befana ci “buttava” semplici giocattolini che per funzionare avevano un meccanismo a molla che si caricava. Non erano state inventate ancora le Duracell. Noi giravamo la “chiavetta” fino a quando gliela facevamo, poggiavamo il giocattolino su un tavolo o per terra e quello cominciava a funzionare: a muoversi, a girare, a compiere qualche evoluzione, più o meno a lungo, fino a quando… fino a quando la molla esauriva la sua spinta e il giocattolo restava immobile.

Quando noi nasciamo, anzi, fin dal nostro concepimento, abbiamo ricevuto una “carica” che ci è stata trasmessa dai nostri genitori, insieme a tutti i nostri caratteri ereditari. Fino a quando questa “carica” dura e dà a noi la spinta vitale, campiamo; Quando la molla esaurisce la sua spinta sopraggiunge la morte. La colpa non è di “Nessuno”.

Don Luigi, non è un segreto, spesso diceva, quando si parlava di morire: “Tanto, prima o poi dovete morì tutti. Adesso però nu’ ve la pigliete: io ve porto giù da ttutti perché campo fino a centocinquant’anni!”.

Purtroppo però, non lo sapeva nemmeno lui in quale momento sarebbe terminata la sua carica. Certo è però che Duilio e Pia, se prendiamo per vero o possibile il suo paragone, avevano girato un bel po’ la chiavetta della sua carica per farla durare ottantotto anni, che, tutto sommato… non è poco.

Scusami don Luì, ho forse scherzato un po’ troppo con il tuo paragone, ma, chissà che nell’aldilà, se leggerai queste un po’ irriverenti righe, ci farai anche tu una risatina! Certamente i tuoi paragoni, a volte un po’strambi, ma spesso calzanti, le tue risate sincere, le tue critiche, la tua arguta ironia ci mancheranno, come ci mancherà la tua silhouette nera, ultimamente un po’ appesantita dalla pancetta che da qualche anno ti rendeva un po’ rotondo, che percorre le strade del nostro paese. Particolarmente però noteremo la tua assenza in quei cento metri, poco più, poco meno, che separano l’uscita dalla sacrestia dalla scalinatella di Via del Cinema, che più volte al giorno percorrevi da tanti anni ormai, in entrambi i sensi: o per recarti a svolgere il tuo ministero o per andare a consumare i pasti insieme ai tuoi cari “anziani”.

Ci mancheranno anche il tuo colbacco di pelliccia nera e il tuo largo sombrero bianco di paglia, che hanno svolto per qualche tempo la vitale funzione di tener calde, quando soffiava dalla parte “de ‘a Costa ‘e Piacciano” la gelida tramontana, o di rinfrescare, quando la calura estiva ristagnava sulla Valle e arroventava l’aria, le tue straripanti e sempre incandescenti idee.

 

Novembre 2011.

Lillo