24.09.10
...e per ogni mese, un Vignanellese
di Tommaso Marini

SETTEMBRE  2010

IL TRENINO DELLE 07,10...
personaggio di settembre!

      Appena qualche giorno indietro parlavo con mia nipote, Cecilia Mariani, che si accingeva ad iniziare il suo primo anno scolastico in quel di Viterbo.
      Cecilia mi parlava della sua scelta scolastica, dei timori per la riuscita di un anno diverso da quelli finora conclusi, degli orari scolastici impegnativi e dello stress quotidiano, dovuto ad un viaggio certamente stancante per gli orari e per la  monotonia del percorso.
      Credetemi, un po’ l’ho invidiata! L’ho invidiata per questa sua nuova esperienza, l’ho invidiata per la giovane età, l’ho invidiata perché, per un momento, ho rivissuto la mia esperienza di giovanissimo studente, alle prese, come lei, con i dubbi e le difficoltà elencate.
      Peccato per la cara Cecilia, che purtroppo non potrà ricordare la magica esperienza, che si viveva, con tanti altri studenti, nel doppio percorso giornaliero, in treno, da Vignanello a Viterbo e viceversa!

      Questo mese voglio raccontarvi parte di quegli avvenimenti, della spensieratezza e della gioia di vivere, che ci pervadeva in ognuno di quei trentacinque minuti di viaggio indimenticabile.
      Mi scuso con coloro che avrebbero preferito leggere la storia di un personaggio, ma, per molti lettori, il trenino delle 07,10 è da considerare un “personaggio” a tutti gli effetti.
      Mia madre iniziava alle 06,45 a dirmi che erano le sette e che il treno stava per arrivare. Io, imperterrito, continuavo a crogiolarmi nel letto da cui non mi sarei staccato per tutto l’oro del mondo.
      Il primo acuto fischio del mostro di ferro, lanciato come avvertimento a poca distanza dalla stazione, coincideva con la fine della colazione,che mia madre, premurosamente, aveva preparato: caffelatte con pane in guazzetto e molto zucchero per caricarmi di maggiori energie.
      Il secondo fischio, all’arrivo in stazione, veniva lanciato come allarme ai ritardatari. In quel preciso istante uscivo di casa, saltavo con due balzi gli 11 gradini che mi separavano dalla strada ed incominciavo a correre verso la stazione. Insieme a me correvano una piccola pila di libri, quaderni e diario, una cravatta ed una giacca. Sì, una giacca! Perché, a quei tempi l’ingresso in aula era ammesso solo con la giacca: niente jeans, niente scarpe da tennis e niente maniche corte.
Tommaso      L’intervallo tra il secondo ed il terzo fischio, quello della ripartenza, era sufficiente al personale del treno per gustare un caffè, a me per poter saltare sul “secondo vagone”, quello dei “caciaroni” (in caso di ritardo c’era sempre un complice compiacente che impediva la chiusura di una delle porte, impedendo di fatto la partenza del treno).
      Io ed il treno viaggiavamo in perfetto sincronismo e puntualità!  

      All’epoca, l’inizio dell’anno scolastico coincideva con i primi giorni di ottobre e le scuole avevano termine il 15 giugno dell’anno successivo.
      Molte festività, religiose e civili, erano disseminate in quei lunghissimi 258 - 259 giorni di assiduo impegno, di freddolosi inverni e calde primavere.
      Parte di queste festività scolastiche sono state cancellate, in modo troppo frettoloso, a scapito della poca attuale frequenza scolastica. Ricordo con rimpianto il 4 ottobre (San Francesco, Patrono d’Italia), il 2 novembre (commemorazione dei defunti. Qualcuno, il giorno prima, ricordava: “Domani ricorrono i morti.” Qualche altro rispondeva: “Speriamo che vinca mio nonno!”), il 4 novembre (Anniversario della Vittoria nella Grande Guerra), l’11 febbraio (anniversario del Concordato del 1929 tra Chiesa e Stato italiano), poi il Santo Patrono e la Festa per l’Ascensione.
      Ricordo, ancora, la “lectio brevis” con relativa Santa Messa, nel giorno antecedente l’inizio delle vacanze pasquali e natalizie; l’uscita anticipata, alla fine della seconda ora (ora rigorosamente di 60 minuti), il giorno del giovedì grasso (Carnevale) e l’ingresso posticipato, all’inizio della terza ora, il giorno delle Ceneri (concessione molto apprezzata da noi studenti, che la notte precedente avevamo ballato e festeggiato il Carnevale fino a tardi).

NuzzoIn una di tali circostanze ebbi l’opportunità di frequentare Nuzzo (Salvatore) Gnisci, di un anno più grande. Fu il mio “maestro” di ballo, ammesso che le mie impacciate movenze potessero considerarsi tali (imparai qualcosa solo più tardi!). Con Nuzzo condivisi tantissimi altri eventi ed era sempre prodigo di suggerimenti e consigli. Fummo legati da stima reciproca e sincero affetto. Fatalità volle che celebrassimo, nel medesimo giorno, i rispettivi matrimoni (31 di Agosto 1974).
      Si definiva scherzosamente “un tumorato di Dio”, la malattia lo spense il 31 Luglio 2001.

      Ma torniamo al nostro “personaggio”. Il nostro amico, ogni giorno di ogni settimana, di ogni mese, di ogni anno, iniziava la sua corsa da Civita Castellana alle ore 06,33 e, dopo aver toccato le stazioni di Catalano, Fabrica di Roma e Corchiano, giungeva a Vignanello alle ore 07,09 per ripartirne un minuto più tardi. Vallerano, Soriano nel Cimino, Vitorchiano e Bagnaia costituivano la stazioni successive, prima di giungere alle ore 07,44 alla stazione di Viterbo Porta Fiorentina.

      Ma cosa succedeva durante quei trentacinque minuti di viaggio? Avveniva di tutto e… di più! All’andata (Vignanello – Viterbo) le circostanze erano tra le più variegate: c’era chi ripassava qualche argomento scolastico in vista di una possibile interrogazione, chi sonnecchiava con la impossibile speranza di seguitare il sonno interrotto dalla partenza, chi, appartato, amoreggiava con la nuova fidanzatina, chi ostentava nervosismo alla vista di tale scena (ovviamente la ex fidanzatina), chi cercava di imbastire nuove conoscenze e simpatie, chi fumava con soddisfazione la prima sigaretta mattutina, chi giocava a carte, chi, sottovoce, cantava, chi disegnava cuori trafitti sul vetro di un finestrino appannato dal vapore e chi infine, avendo dimenticato l’abbonamento, trascorreva l’intero tragitto in “ritirata”, per evitare che il sig. Vallone (così detto perché lui diceva di somigliare all’attore Raf Vallone: mai notizia risultò più falsa!), controllore di bordo, potesse elevargli una contravvenzione (circostanza, per la verità, mai verificatasi; il sig. Vallone, burbero nei modi e, a volte, incomprensibile per lo stretto uso del dialetto napoletano, era fondamentalmente un bravo uomo e non avrebbe mai multato uno studente certo di colpire esclusivamente i genitori).

      Il treno, su cui viaggiavano gli studenti di allora, era composto da una motrice elettrica, parzialmente destinata ai passeggeri, che trainava, molto lentamente, altre tre carrozze; il secondo vagone era a scompartimento unico, due porte d’ingresso, piccola “ritirata” e sedili contrapposti in legno per tre persone su di un lato e due persone sul lato opposto; aveva circa cinquanta posti a sedere, ma normalmente ospitava sessanta/sessantacinque persone; il terzo e quarto vagone erano a due scompartimenti, tre porte d’ingresso, di cui una munita di comoda piattaforma, piccola “ritirata” e sedili disposti come per il secondo vagone; aveva circa quaranta posti a sedere ma, normalmente, ospitava una cinquantina di persone.
      I vagoni erano rigorosamente occupati da studenti provenienti dallo stesso paese, salvo rare eccezioni: simpatia tra studenti e/o inevitabili innamoramenti. Per il resto si scimmiottava un po’ il “nonnismo” del servizio militare: qualche battuta al limite della “non offesa”, qualche apprezzamento personale che non suonava come un “benvenuto”, ma per il resto, si poteva contare su un tranquillo e riposante tragitto; d’altra parte, in tutti i vagoni aleggiava la stessa atmosfera.
      Il costo mensile dell’abbonamento ferroviario, con riduzione studenti, era di Lit. 4.800 ed era valido, senza limitazioni del numero di corse, dal lunedì al sabato. Il costo di un normale biglietto di viaggio, Vignanello-Viterbo e ritorno, era di Lit. 320.

La prima sede dell'I.T.I.S. - Palazzo Macchi      La mia diretta esperienza ferroviaria risale all’ottobre 1960 quando, giovanissimo studente, iniziai a frequentare una nuova scuola superiore appena avviata: era l’Istituto Tecnico Industriale Statale “Armellini”, sezione staccata di Viterbo, che contava, all’epoca, 110 alunni.
      Per la verità, in quegli anni, il numero di studenti che frequentava le scuole superiori era molto esiguo. Le difficoltà incontrate nella scelta di tale percorso formativo erano molteplici; c’erano, per prime, le difficoltà didattiche dovute a seri ostacoli scolastici: due esami, quello d’Ammissione da superare per poter frequentare la scuola media (scuola media di 1° grado) e quello di Licenza Media, da superare per poter frequentare la scuola superiore (scuola media di 2° grado). A queste difficoltà si sommavano, inoltre, doppie difficoltà economiche: spese per il mantenimento allo studio (non erano previsti sussidi a tale scopo, se non l’esenzione dal pagamento delle Tasse scolastiche nel caso di profitto scolastico raramente conseguibile) e la perdita di “braccia” utilissime a contribuire, con il lavoro, all’economia familiare.
      Per fortuna gli anni sessanta segnarono l’avvio del “boom economico” e nel giro di due, tre anni un considerevole numero di adolescenti ebbe l’opportunità di proseguire gli studi (anche in considerazione del fatto che, nel 1962, vennero aboliti gli Esami di Ammissione e divenne obbligatoria la frequenza scolastica fino al conseguimento della Licenza Media).

      Bene, per ritornare alla mia esperienza, ricordo che i primi giorni di viaggio non furono assolutamente divertenti, ad eccezione della novità giornaliera che consentiva, a me e ad altri giovani timidi ed impacciati quattordicenni, di recarsi in città per studiare: eravamo solamente molto fieri di appartenere alla categoria degli studenti, che ci consentiva qualche piccolo vantaggio di carattere sentimentale!

      Erano miei compagni di viaggio Angelo Fornasiero (Liceo classico), Guido Tabacchini, Alessandro (Sandro) Suadoni (Istituto Industriale) e Geo Gazzarini (Istituto per geometri).
GeoGeo, mio cugino, non era interessato allo studio ma, era intelligente e simpaticissimo. Il suo sguardo, nascosto dietro a vistosi occhiali alla Gino Paoli, rigorosamente neri, era imperscrutabile: aveva il viso in una direzione, ma osservava sicuramente altro. La mimica facciale somigliava, in alcune ricorrenti espressioni, a quella espressa da Totò ed insieme ridevamo nel farglielo osservare. Riusciva a mangiarsi le unghie in maniera inverosimile: un’abitudine che non perse mai!
      Noi, invece, perdemmo lui, increduli, all’età di 58 anni, il 24 Gennaio 2002.

      Geo ed Angelo erano più grandi d’età e, con Sandro e Guido miei coetanei, fumavano di nascosto come tanti altri ragazzi. Presto mi convinsero ad emularli e così, al mattino, riunivamo i nostri piccoli risparmi ed acquistavamo, al Bar della Stazione, n. 5 sigarette Nazionali Esportazione senza filtro (all’epoca le sigarette potevano essere vendute anche sfuse).  L’anziana proprietaria del Bar, Sig.ra Domenica (Mecuccia), apriva con maestria il pacchetto intero e, con un tocco quasi da prestigiatore, riusciva a far emergere esclusivamente il numero di sigarette richieste!
      Il costo del nostro proibito “vizio” ammontava a Lit. 75 (Lit. 15 a testa) e le sigarette venivano acquistate appositamente senza filtro, perché, pizzicandone la parte finale con una matita a pulsante (portamine da disegno tecnico), potevano essere quasi completamente consumate, con il rischio frequente di piccole ustioni sulle labbra.

      Le mie economie giornaliere di studente consistevano in molto poco: Lit. 100 da poter utilizzare in caso di necessità e a volte qualcosa in più, quando mio padre, di nascosto a mia madre, aggiungeva altre 50 lire alla misera paghetta.
      Inoltre, l’orario scolastico dell’Istituto Industriale richiedeva l’effettuazione di lezioni pomeridiane e, pertanto, la necessità di fermarsi a Viterbo per il pranzo. In tali circostanze mia madre elargiva altre 100 lire per la mensa scolastica (la spesa, per la verità, era di 50 lire per un pessimo piatto di pasta ed una fetta di pane con piccola tavoletta di cioccolato). Le 50 lire d’avanzo confluivano nelle mie “casse” e le 150/200 lire che avevo in tasca mi facevano sentire ricco.

      Il viaggio in treno del primo anno era, per tutte le matricole, un viaggio movimentato. Si cercava di evitare il vagone degli “anziani” in modo da non incorrere in scherzi e derisioni e, inoltre, per scongiurare l’immancabile “sculacciata” di iniziazione alla carriera di studenti.
      Il tratto di andata era, come ho già detto, un viaggio abbastanza tranquillo, si era ancora assonnati o impegnati in disparate faccende, certo un normale viaggiatore che saliva su quel vagone (il “nostro” vagone!) poteva tranquillamente scambiarlo per un ricettacolo di nullafacenti anziché di “future maestranze”.
      Alla stazione di Soriano nel Cimino, noi maschietti ci affacciavamo ai finestrini, qualunque fossero le condizioni climatiche, per ammirare Caterina Morini, una ragazza bellissima che ha trafitto i cuori di tutti gli studenti, pendolari a Viterbo, dal 1960 al 1965.
      La Morini , la chiamavamo così anche in ricordo di una splendida moto dell’epoca, viaggiava in motrice. Con i miei compagni di viaggio, a volte, si saliva in motrice e si occupava qualche posto in più di quelli necessari, posto che si liberava a Soriano con la speranza segreta (per altri) di averla compagna di viaggio ed immaginare chissà quale sviluppo di relazioni future.
      Una volta, ricordo, tale circostanza si verificò ma la timidezza e la grande emozione ci rese muti per tutto il tempo impiegato per giungere a Viterbo: non accennammo neanche ad un “ciao” di saluto.
      Il padre di Caterina era proprietario della sala cinematografica di Soriano e, in estate, spesso ci si recava in quel cinema con il solo scopo di poter incontrare la figlia.
      Una decina di anni indietro incontrai Caterina presso la Casa d’Aste “Eurantico” a Vignanello, in quel di Centignano. Il tempo l’aveva un po’ cambiata, come tutti del resto, ma era ancora molto bella e più interessante. Le raccontai l’episodio che non ricordava assolutamente: quella volta fu lei ad arrossire ed emozionarsi come un’adolescente.

      Il nostro eroe, elegante e pulito nei suoi colori blu e celeste, giungeva a Viterbo, come ho già detto, alle 07,44. La prima campana d’ingresso a scuola suonava alle ore 08,00, ma l’ingresso era consentito fino alle 08,15 onde permettere l’inizio delle lezioni alle ore 08,20 (il termine delle  lezioni era alle 12,20 o 13,20  a seconda dell’orario di 4 o 5 ore previste).
      In quei trenta minuti si percorreva, a frotte, parte di Corso Trieste, ci si immetteva in Largo Gramsci e quindi si svoltava a destra per via San Bonaventura, si superava Porta Murata e, percorrendo una consumata scala in peperino poco distante sulla sinistra, si percorreva via di Porta Murata fino a giungere in Piazza Verdi (Piazza del Teatro).
      Una volta qualcuno dei più “anziani” (mi sembra fosse Napoleone Rita) suggerì una prova di abilità che consisteva nel lanciare verso l’alto il pacchetto di libri scolastici, tenuti ben stretti da una cinghia elastica, in modo da poter scavalcare l’arco di Porta Murata per riprenderli, al volo, dalla parte opposta. La prova era particolarmente difficile, si provava in continuazione e, ricordo, pochissimi riuscirono nell’impresa. Qualcuno, addirittura, dovette lasciare per sempre libri e quaderni sul culmine piatto dell’antica costruzione muraria a beneficio della cultura dei volatili viterbesi!

      Una volta giunti in Piazza Verdi una parte di questo nutrito gruppo di studenti, ed io tra loro, si staccava per una breve sosta alla Pizzeria di Angela (locale ora occupato da un forno-alimentari) per ascoltare un po’ di musica e per gustare, a mezzi o a terzi, una squisita pizzetta napoletana, piegata in due ed abbondantemente farcita: una bontà ed un gusto incomparabile al costo di Lit 60.  Il locale era molto piccolo, ma il numero di persone ospitate era enorme: ancora mi chiedo come fosse possibile la contemporanea presenza di tanta gente in un posto talmente angusto!
      All’uscita dalla Pizzeria di Angela, si verificava un primo frazionamento dei convenuti: coloro che avrebbero rinunciato alla cultura, per una più completa formazione nel biliardo, che si dirigevano al Bar noto come “ La Casba ”, coloro che avrebbero rinunciato alla cultura, per una più approfondita conoscenza della “fidanzatina”, che risalivano verso Prato Giardino e coloro che, attaccati al “dovere”, proseguivano in direzione delle rispettive sedi scolastiche.
      Ancora, fortunatamente, il terzo gruppo era molto più numeroso dei primi due!

      Le diverse sedi scolastiche erano abbastanza vicine tra loro, pertanto si continuava insieme per un bel tratto. Percorrendo Via del Corso, fino a Piazza delle Erbe, si saliva a sinistra per Via dell’Orologio Vecchio ed al semaforo giallo lampeggiante (ora rimosso) che si incontrava al termine della salita, si prendeva ancora a sinistra per Via della Verità e si giungeva a Porta della Verità, superata la quale, prendendo a destra, ci si immetteva su Viale R. Capocci, da cui si accedeva all’Istituto Tecnico Commerciale “P. Savi”.
      Il percorso descritto consentiva agli studenti dell’Istituto Tecnico Industriale l’ingresso a scuola in Piazza Luigi Concetti (Palazzo Macchi), agli studenti del Liceo Scientifico l’ingresso a scuola in Via della Verità, agli studenti dell’Istituto Magistrale e Liceo Classico l’ingresso a scuola in Piazza Dante, alle studentesse dell’Istituto Femminile “Venerini” l’ingresso a scuola in Via Mazzini, agli studenti dell’Istituto Tecnico Commerciale e dell’Istituto Tecnico per Geometri (fino all’a.s. 1960/61 anche agli studenti del Liceo Scientifico, trasferitosi nell’anno successivo nelle nuove sede di Via della Verità) in Viale R. Capocci.

      Via del Corso, alle ore 08,00 del mattino, appariva quasi completamente deserta. Potevano incontrarsi due o tre persone che attendevano a lavori particolarmente mattinieri. Tra questi c’era il Sig. Otello, uomo di una certa età, magrissimo ed avvolto in un ampio “paletot” marrone che poteva tranquillamente cingerlo per due volte.  Facevano tenerezza il suo volto e il suo breve e veloce passo, la sua andatura aggraziata come quella di una ballerina.  Tutti insieme, noi ci disponevamo in fila indiana e lo seguivamo per un lungo tratto imitandolo nella camminata: riconosco che ci comportavamo da  persone maleducate e molto poco rispettose del prossimo.
      In altre circostanze, percorrevano l’intero percorso di raccordo con i vari Istituti scolastici, intonando, a squarciagola, canzoni dialettali di pessimo gusto e peggior contenuto!

      Con immenso piacere, con nostalgia ed anche con grande rammarico, voglio ricordare alcuni di quei tanti ragazzi che tanto hanno condiviso la mia esperienza, che hanno influito sulla mia crescita e sulla mia formazione di uomo; voglio ricordare coloro che hanno riempito gran parte delle mie giornate e sono riusciti a trasformare un timido quattordicenne in un “caciarone impenitente”.

      RicordarVi tutti, lo capirete, è impossibile e fin da ora mi scuso con tutti quelli che non elencherò, una cosa, però, mi preme sottolineare: per tutti ho nutrito, nutro e nutrirò un grande attaccamento ed affetto.

Franco      Desidero ricordare inoltre, con immenso dolore e commozione, altri che molto prematuramente ci hanno lasciato: penso a Loretta Andreocci, Gabriella Bracci, Elia Gionfra, penso ancora a Paolo Paola, a Franco Grattarola e Mario Stefani: questi due ultimi compagni di canto, di carte e di scherzi molteplici.

Mario      Franco e Mario, come già raccontato, furono i protagonisti, con Loreto e me, di epici scontri al biliardino e, qualche volta, al biliardo. Entrambi avevano una “calma” quasi proverbiale, ma non riuscivano a capacitarsi  come due “sbarbatelli” quindicenni potessero superarli in quel giuoco dove si ritenevano insuperabili. Di contro, nel giuoco del biliardo non avevamo “chance”: venivamo sempre sonoramente sconfitti.
      Mario ci lasciò molto presto: aveva 51 anni. Franco di anni ne aveva 61.

      Gli altri compagni di viaggio, invece, desidero ricordarli con un velo di nostalgia per “quell’era beata” che tanto ci accomunò.  Per comodità di elencazione tenterò di dividerli, ammesso che la memoria mi assista, per indirizzo di studi.

      Frequentavano il Liceo scientifico: Mario Tusoni, Biagio Ziaco, Domenico Paola, Alessandro Pugliesi, Emilio Petti, Alessandro Ceccarelli.

      Frequentavano il Liceo classico: Giorgio Mastrogregori, Tommaso Gionfra, Rosa Maria Orsolini, Angelo Fornasiero, i fratelli Giovanni (Gianni) e Alessandro (Sandro) Mastrangeli, i fratelli Augusto e Cesare Mastrangeli, Carla Pugliesi, Sandro Rita, Carla Chiricozzi (mia moglie), Livia Annesi, le sorelle Mariella e Anna Lisa Petti, Paola Ceccarelli della quale desidero ricordare le eccezionali capacità intellettive e le invidiate votazioni riportate al termine dell’anno scolastico: 10 in Italiano, 10 in Latino, 10 in Greco, 10 in Storia e Filosofia, 10 in… tutto, una sola materia le era particolarmente ostica, tanto da riportare una votazione disastrosa:  ZERO.   Erano le assenze!

      Frequentavano l’Istituto industriale: Alessandro (Sandro) Suadoni, Guido Tabacchini, Loreto Seralessandri, Rosato Cioccolini, Giovanni (Gianni) Ceccarelli, Costantino Santi, Elio Larai, Vincenzo Salvatori, Francesco Bracci, Emilio Lelli, Tullio Stefanucci, Nicola Bracci ed il sottoscritto.

      Frequentavano l’Istituto femminile “Venerini”: Gradita Graziotti, Rosalba Salvatori, Luigina  Ciambella e la già decantata Caterina Morini.

      Frequentavano l’Istituto tecnico per il commercio: Mario Lupi, Margherita Stefani, Amedeo Orsolini, Antonio Mezzopra, Marcello Piermartini, i due omonimi Mario Olivieri e Mario Bracci (entrambi ex sindaci di Vignanello), Venanzio Romoli, Luciano Fochetti, Luigi Stefani.

      Frequentavano l’Istituto Tecnico per Geometri: Napoleone Rita, Angelo Loppi, Giuseppe (Pino) Pacelli, Alessandro Testa.

      Frequentavano l’Istituto magistrale: Consolina (Lina) Pepe, Nicola Piermartini, Maddalena Costantini, Giuseppina Ceccarelli, Miriam Mastrogregori, Danila Annesi, Maddalena Stefani, Rita Marini, Anna Loppi, Adriana Chiricozzi, Rosanna Romoli, Attilia Fochetti, Maria Bracci, Bruno Sandro Ceccarelli, Giuseppina Buzi, Minervina Marini.

      In quella atmosfera familiare e, per noi, particolarmente accogliente e romantica si consumarono infinite relazioni sentimentali, si allacciarono amori ancora stabili, si conclusero storie d’amore sconvolgenti. Si pianse e si rise per amore. Si raccontarono verità e falsità per amore. Si giurarono fedeltà e sincerità in amore. Si ebbero scontri e litigi violenti per amore.
      Tranquilli, non mi comporterò da delatore. Mi giustificherò dicendo che: “Non vidi, non sentii, non c’ero e… se c’ero, dormivo”!

      Quelli che invece vorrei raccontare sono alcuni simpatici episodi che avvenivano nelle varie classi delle diverse scuole e che, nel tragitto di ritorno, si raccontavano con attenta dovizia di particolari. Il più bravo a raccontare tali episodi era Giorgio ‘e Profilio (Giorgio Mastrogregori, attualmente stimato ginecologo (non poteva essere diversamente!) nel Consultorio dell’Ospedale di Albano Laziale. Giorgio era simpaticissimo: forte e prestante, era il discobolo-pesista del Liceo Classico all’epoca dei Campionati Studenteschi ed ottenne eccellenti prestazioni.
      I racconti di Giorgio, anche se il fatto non era un gran che, erano interminabili per l’accuratezza delle descrizioni dei luoghi, delle persone e degli antefatti.
      L’avvenimento che spesso raccontava (e che ogni tanto ripeteva, sapendo di suscitare ilarità) riguardava se stesso: nella sua classe Giorgio era il più forte a “braccio di ferro”, di questo andava molto fiero e non perdeva occasione per tenere alta tale “nomea”, sfidando gli altri compagni di classe. Nel corso di un anno scolastico fu iscritto alla sua sezione un nuovo studente che proveniva da un Liceo di Roma, era Augusto Zappi (successivamente, Augusto, si fidanzò e si sposò con la cugina di Giorgio, Miriam Mastrogregori). Per Giorgio, quella, era una ghiotta occasione per dimostrare, già all’inizio dell’anno scolastico, la sua forza e la sua prestanza atletica e, con aria di superiorità, propose al nuovo arrivato una sfida a braccio di ferro, certo della vittoria.      Purtroppo le cose non andarono in questo verso: Augusto era molto più forte di quel che si pensava e lo scontro (proposto da Giorgio per “far capire subito che fosse il più forte”) si concluse con la sua vittoria. Giorgio ci rimase malissimo, riuscì solo a mormorare, in vignanellese: “Resto sempre i’ secondo bono!”

      Altra storiella simpatica che ogni tanto raccontava era relativa all’interrogazione che il Prof. Luiso (grandissimo e simpaticissimo insegnante di Scienze e Chimica) fece ad una sua avvenente allieva, vestita nell’occasione in modo provocante (tralascio i commenti e la descrizione particolareggiata fatta da Giorgio nel corso del racconto). La signorina, come continuava a chiamarla il Prof. Luiso, non era molto preparata e, pertanto, l’insegnante cercava di aiutarla formulando, via via, domande sempre più facili. Nel corso dell’interrogazione, inoltre, il prof. Luiso non nascondeva il piacere che provava nell’osservare le sinuose grazie della bellissima ragazza, per cui, alla errata trascrizione di una semplicissima formula chimica, il prof. Luiso si avvicinò alla lavagna, corresse un errore di distrazione che condusse alla giusta risposta e, rivolto all’allieva, esclamò: “Ecco quà, fficona!”, termine che alcuni assimilarono al “tontolona”, mentre altri, vista l’espressione, lo assimilarono ad uno spontaneo,  sentito e, forse, eccessivo complimento.

      Le circostanze curiose che si verificavano in mattinata nelle varie scuole, venivano raccontate sul trenino delle 13,40 che riportava tutti noi studenti a Vignanello. Il ritorno era certamente molto più interessante rispetto all’andata: canti, giochi di carte e di abilità, fatti curiosi e circostanze imprevedibili erano motivi di allegria.

      Un fatto curioso, avvenuto nella mia classe e degno di “citazione”, desidero raccontarlo anche a Voi, spiritosi e simpatici lettori.
      Frequentavo il primo anno ed avevo in classe due compagni provenienti da Soriano: Nando e Giuseppe (Peppe), dei quali non citerò i rispettivi cognomi per motivi di privacy. Erano di un anno più grandi ed avevano perso già un anno scolastico in quanto colpiti da una malattia inguaribile: l’assenza cronica!
      Eravamo in prossimità delle vacanze natalizie e la mamma di Peppe venne a scuola per conoscere i risultati scolastici del figlio, che risultava immotivatamente assente. Chiese notizie a qualcuno di noi che, diplomaticamente, cercò di coprire i misfatti. Qualche altro disse solamente che dava poca confidenza e che si accompagnava esclusivamente a Nando, suo compagno di banco.     La mamma di Peppe, tornando a Soriano e conoscendo i genitori di Nando, si recò a casa del compagno del figlio, per conoscere i motivi dell’assenza. Fatalità volle che Nando, per giustificare altre assenze, aveva finto un malessere e non era andato a scuola. Quando la mamma di Peppe gli chiese notizie del figlio (Il diavolo, sapete, fa le pentole ma non i coperchi!), Nando, che ignorava la visita fatta a scuola dalla donna, rispose che si vedevano poco in quanto iscritti a sezioni differenti. “Ma come - replicò la donna – a scuola mi hanno detto che siete compagni di banco!” Immaginate quali furono le conseguenze: la mamma di Peppe incominciò ad imprecare contro il figlio definendolo “delinquente” ed annunciando chissà quali conseguenze, la mamma di Nando, capacitandosi delle ripetute assenze del figlio, incominciò a percuoterlo sonoramente, il padre di Nando, rincasato per il pranzo, appresa la notizia, dette manforte alla moglie nel colpire con più vigore il figlio e Peppe, giunto ignaro a casa per il pranzo, trovò ad aspettarlo il padre che lo colpì ripetutamente con il manico della scopa, fino a lasciarlo esanime.
      Morale: si venne a scoprire che in circa 80 giorni di scuola, i due “scellerati” compagni non si erano mai incontrati a scuola, nonostante fossero iscritti nella stessa sezione della stessa classe e condividessero lo stesso banco!

      Il vagone occupato da noi vignanellesi era una continua fucina di idee, in special modo nel proporre prove di abilità impensabili, una di queste (ideata, se non ricordo male, dal solito Napoleone Rita) consisteva nel far volteggiare in aria un pacchetto, tipo rigido, di sigarette cercando di farlo atterrare sul piano del sedile, in equilibrio su una delle sei facce: due più piccole del valore di 5 punti, due poco più grandi del valore di 3 punti e due, le più grandi, del valore di 1 punto. Vinceva chi, con 5 tiri realizzava il maggior numero di punti: la posta in palio era pari al numero di sigarette anticipate dai giocatori partecipanti.
      Per altri di noi, il passatempo preferito erano le partite a carte. Si giocava per l’intero tragitto a briscola, tre sette, petrangola, gioco delle tre carte oppure qualcuno si cimentava in piacevoli giochi di prestigio.
      Alcune volte si scherzava in modo troppo goliardico: lanciandosi le piccole pile di libri tenuti insieme dal rituale legaccio elastico. In una di queste circostanze, i libri lanciati da Guido Tabacchini colpirono, non volendo, Maddalena Costantini che, già più volte infastidita da analogo episodio, raccolse tale involucro e, aperto un finestrino, lo gettò fuori; eravamo in prossimità della fermata La Fornacchia , per cui il giorno successivo ci si dovette organizzare per il recupero.

Fernando      Ciò che riusciva meglio, e di cui tutti andavamo fieri, era il canto. Fernando Pacelli era bravissimo, sia come voce solista che come direttore di coro. A volte cantavamo insieme ed era capace di esprimersi in personalissimi contro canto che lasciavano stupiti. Gli applausi, per lui, erano frequenti e calorosi. Fernando ringraziava sempre alzandosi in piedi e sciorinando il suo affabile sorriso. Inchinava lievemente il capo in tutte le direzioni, come a voler imitare cantanti famosi, e poi riprendeva il suo posto. Anche Fernando ci ha lasciati molto presto: era il 2006.

      Le arie intonate erano svariate: ce n’erano d’importanti e famose (Va pensiero, Lassù sulle montagne, Quel mazzolin di fiori, Il fazzolettino, Stornelli romani) ed altre dialettali ed equivoche (Son tre mesi che faccio il soldato, Un giorno la Rosina andò alla mola, Piglia un sasso e bussa alla porta, C’era una volta un povero frate, Erano tre sorelle, Lo spazzacamino, La casa del curato, La strada nel bosco, La bicicletta, Gli toccai i capelli). Era sufficiente che uno qualsiasi di noi iniziasse la prima strofa, perché tutti, cessando ogni qualunque attività, rispondessero in coro per il resto dell’intera canzone.

      Certo il contenuto di tali arie non era da “Festival di San Remo”, ma l’esecuzione era sicuramente magistrale nella voce e nella gestualità.

Nella famosissima “…e gli toccai i capelli” c’era un passaggio, interpretato dal solito Giorgio, dalla comicità sconvolgente;  diceva il testo, a canzone avanzata:

“… e gli toccai il ginocchio,
lei mi disse, sei un finocchio,
vai più su che c’è un bell’occhio,
amor se mi vuoi bene, più su tu devi andar”

Bene, prima del “c’è un bell’occhio”, Giorgio toglieva gli occhiali, con una mano tappava l’occhio sinistro e, tenendo ben aperto l’occhio destro, con mimica allusiva concludeva la strofa suscitando, in tutti, una fragorosa risata.

      Con il passare del tempo, le nostre esibizioni canore diventarono sempre più articolate e “professionali” e diversi passeggeri prendevano posto nel nostro vagone per ascoltare il piacevole canto ma, soprattutto, per divertirsi insieme a tutti noi.

      Poi, come tutte le cose, quell’affiatato gruppo iniziò a diradarsi; a rotazione terminava il ciclo di studio e con esso, inesorabilmente, l’allegria e la spensieratezza giovanile. Ci si accorgeva, improvvisamente, di essere diventati adulti e si percorrevano strade diverse.
      Le “nuove leve” studentesche avevano altri interessi e la goliardia, vissuta da noi più anziani, non appagava sufficientemente.
      Con nostalgia alcuni, durante in viaggio, ricordavano i tempi andati, cercavano di mantenere vive abitudini e tradizioni, ma riuscirono solo a tramandare i gesti e non lo spirito che ci teneva insieme, uniti quasi vivessimo in simbiosi.

      Il nostro eroe, il magico trenino delle 07,10, continua ancora il suo servizio, imperterrito come se il tempo si fosse fermato, ma non è più quello di un tempo, è divenuto più bello, più veloce, più caldo d’inverno e più fresco d’estate, si è adeguato ai tempi ed io, ritenendolo ancora “cosa viva”, immagino che si lamenti del progresso, del correre frenetico, della poca cura ed attenzione, di cui è oggetto, della scomparsa delle timide ed appartate coppiette, dell’aria festosa trasmessa da chi aveva bisogno di poco per essere felice, dei canti, dei cori, del mancato riconoscimento all’essenzialità del servizio ora quasi esaurito, di tutto quello, insomma, che per tanto tempo lo ha reso fedele amico e discreto compagno.

      Grazie caro amico, grazie di tutto ciò che ci hai dato e scusaci per non averti ricambiato affettuosamente come avremmo dovuto.

Vignanello, li 24 settembre 2010