24.10.10
...e per ogni mese, un Vignanellese
di Tommaso Marini

OTTOBRE  2010

IL BOTTEGONE

I trascorsi giovanili e le allegre serate
in compagnia di Giuliano, Silvano, Dante e Vario

         Al fine di recuperare la carenza di personaggi nostrani non specificatamente espressi nel trascorso settembre, cercherò di farmi perdonare, eccedendo in tale compito, in questo mese di ottobre.
            L’occasione più ghiotta, per assolvere a tale promessa, è quella di rivivere insieme il trascorrere di quel poco tempo rimasto al termine di una lunga giornata di lavoro o di studio.
            Gli anni, di cui racconterò, spaziano dal 1960 al 1974. Sono gli anni della mia adolescenza e della mia gioventù, così come lo sono stati per tanti altri e altre: coetanei e… dintorni!

            L’abitudine dell’epoca era quella di uscire appena pranzo, per un piccolo “break”, prima di riprendere gli impegni pomeridiani e subito dopo cena, per incontrare gli amici più cari.
            Nelle precoci serate invernali si tornava nelle vie del centro per lo “struscio”, da Piazza della Repubblica alla fine di Corso Matteotti, mentre nelle tarde serate estive si seguitava per Corso Mazzini e Via Vignola fino alla Colonnetta, posta all’incrocio con il termine di Via San Rocco.
            Lo “struscio” serviva, ovviamente, per l’incontro con la “fiamma” di turno, in uno scenario chiassoso che mascherava le vicendevoli timidezze e le trasparenti emozioni.
            Quell’andirivieni, insensato ai tempi d’oggi, era l’unica possibilità di conversazione e di frequentazione per noi eterogenei adolescenti. Il pomeriggio della domenica si riusciva a trasgredire le rigide regole, organizzando qualche “festa da ballo” in casa di qualcuno di noi. Una mamma compiacente lasciava campo libero, recandosi a far visita ad una non meglio identificata amica.

            Le tarde uscite serali non erano frequenti, lo divenivano nel corso dell’estate.

            Il “dopo cena” invernale, all’epoca, offriva due sole alternative: il cinema (in paese funzionavano due sale cinematografiche: il Cinema Comunale in Via delle Scalette ed il Cine Cimino in Via San Rocco) oppure il Bar (esistevano una decina di attività commerciali di tal genere). Impensabile qualsiasi tipo di incontro di genere misto, se non per il periodo del Carnevale!
            Il gruppo di amici abituali si incontravano al cinema per la proiezione di Western visti e rivisti (di alcuni si conoscevano a memoria quasi tutte le battute, proprio come rievocato nel film “Nuovo Cinema Paradiso”), oppure in occasione di proiezioni un po’ “hard” con commenti, ancora più “hard”, esternati in diretta dagli stessi spettatori.
            La prima categoria di film ci faceva sentire invincibili cowboys come Giuliano Gemma, Clint Eastwood, Lee Van Cleef ; la seconda ci consentiva di ammirare le splendide sembianze di Barbara Bouchet, Edwige Fenech, Gloria Guida, Stefania Casini e, nel contempo, agitava i nostri sonni tardivi!
            Il Bar era il “refugium alternativo” nel caso di proiezioni poco interessanti. Si frequentavano diversi locali: il Bar dello Sport in Piazza, il Bar di Luigi Bracci (Cencio Pistoletta) ubicato nei locali dell’attuale fioraio Pugliesi, il Caffè Felici sul Corso Matteotti, il Bar di Gino Croce all’inizio di Via delle Croci ed il Circolo A.C.L.I. “Giovanni XXIII”, sistemato in un angusto vicoletto al numero civico 53 di Corso Matteotti.
            Indicarlo come “Circolo ACLI” lo ritengo sfacciatamente anonimo: la sua comune denominazione era “IL BOTTEGONE” ed analoga denominazione assumeva tutto ciò che ad esso faceva riferimento, compreso un pulmino “Volkswagen” utilizzato per le esigenze della Parrocchia, indicato come “il bottegone vagante”!
            L’idea di realizzare tale Circolo A.C.L.I. (Associazione Cattolica dei Lavoratori Italiani) fu, neanche a dirlo, di don Luigi Calvanelli e tale spazio divenne, per tanti anni, il centro di infinite attività sociali, in parte elogiate ed in parte criticate, ma questo non compete al nostro racconto!
            I miei amici più cari ed io frequentavamo assiduamente questo Circolo (non disdegnando gli altri locali menzionati) e diventammo, con il tempo, fanatici sostenitori delle svariate attività sociali, che in esso si concretizzarono: ricordo con nostalgia i campeggi al mare (Tarquinia) e in montagna (Camaldoli, Campigna), poi Villetta Barrea e Civitella Alfedena.
            I pomeriggi e le sere trascorse in tale ambiente non erano affatto diverse da quelle che si potevano trascorrere in altri analoghi locali: si poteva consumare un caffé o una bibita, ci si poteva scontrare in infuocate partite alle carte o al biliardo o al calcio balilla, si potevano trascorrere interminabili serate giocando a Tombola o Mercante in Fiera (specie per il periodo natalizio) e aggiudicarsi sostanziosi premi non esclusivamente di carattere economico.

Orlando 'a guardia            Era ricorrente il diverbio giornaliero tra giocatori di carte, o tra avventori per differenti pareri sul calcio, la campagna, la politica, il tempo: tutto era sempre uguale, ineluttabile!
            Lo scontro verbale tra Orlando Annesini (Orlando ‘a guardia) e Gino Agnelli era l’epilogo finale di ogni loro “scontro” alle carte. Si iniziava con i reciproci “sfottò” e si concludeva con l’eccesso di minacce: “Te ‘spetto giuppe ‘a strada ‘e fora!” diceva Orlando. “Sì, ma senza schioppo!” replicava Gino. Era il termine della partita, con le carte che volavano in… cielo.
            Gino AgnelliAnche nelle partite di Scopone Scientifico si ripetevano analoghe scene: erano diversi solo gli… attori! I “maestri” in tale gioco erano Ferrante Salvatori, Alessandro Pacelli e Mario Ceccarelli. Nelle partite, da disputare necessariamente in quattro, veniva reclutato tra gli avventori un “quarto povero cristo” che era costretto a subire, per l’intera partita, i costanti rimproveri del compagno e la derisione degli avversari, circostanze che, di fatto, lo condizionavano a tal punto da rendergli impossibile la prosecuzione del gioco.
            Morale: il quarto giocatore era sempre, ad ogni partita, un personaggio differente!

            La cosa, che più colpiva in tali situazioni, era che, nel volgere di brevissimo tempo, le male parole, le offese, la minacciosa gestualità, la rievocazione critica di ascendenti, discendenti e collaterali, venivano dimenticate e riemergeva la cordialità abituale: come se nulla fosse accaduto!

            Confesso che, nella elaborazione di questo racconto mi sono fermato, più di una volta, per ripensare a tutte quelle persone che frequentavano il Bottegone: non finivo più di nominarle. Presa carta e penna ho incominciato a scrivere i loro nomi e, per alcuni di cui non avevo certezza, i soprannomi: sono riuscito ad elencarne oltre duecento. Desidererei tanto pubblicare tale elenco. Così… solo per ricordare i loro nomi!

            Un accenno, in anteprima, desidero comunque farlo: Giuseppe Annesi (Peppe Pisa), Quintino Bracci (Quintino i’ Ppallottino), Armando Buzi, Rosa Calvanelli, Francesco Ceccarelli (Checchino), Goffredo Cesaretti (er compare), Dante Ciambella (Dante l’americano), Tommaso Cianchi (Tomassino Macchione), Innocenzo Fiorentini (Cencio ‘a Filutea), Casimiro Grattarola, Vando Paola (Vando ‘e i’ Comune), Biagio, Mimmi e Vario Peruzzi (Biagio e Mimmi ‘e Peruzzi, quelli ‘e Giachetto, Vairo Pallone), Francesco Piccioni (Checco i’ bello), Remo Piccioni (Remo i’ scopino), Emilio Salera (Mattonella), Silvano Salvatori (Silvanicchio ‘i Consorzio), Vincenzo Salvatori (Giulianone), Giacomo Sbarra e suo suocero Giuseppe Peruzzi (Peppino i’ Ffarghetto), Giuseppe Sbarra (detto Kirk Douglas per la somiglianza), Onofrio Sbarra (‘Nofrio ‘e Tranquillo), Vincenzo Siena, Giovanni Stefani (Giovannino i’ Papicchio).
            Scrivendo questi nomi e relativi soprannomi, nella speranza che nessuno la prenda a male, ho avuto la netta sensazione di trovarmi in quei locali chiassosi (e soprattutto fumosi!), circondato da tanti personaggi come se si stesse festeggiando un rinnovato incontro dopo tanto tempo di lontananza e silenzio: ho percepito la cantilenante voce di Quintino, quella poco urbana di Armando, quella urlante di Rosa, quella romanesca di Goffredo, quella sfacciatamente vignanellese del compare Giuliano, quella apprensiva che usava Silvano nel parlare dei tedeschi, quella spavalda di Biagio nel descrivere i suoi “affari”, quella sempre contraria di Cencio, quella costantemente stridente di Onofrio, quella pacata e tranquilla di Vincenzo e quella enfatica di Remo, quando declamava il numero “qquarrrrranta”, mentre lo deponeva con cura sul “suo cartellone” della Tombola.
            Era forse per tutto questo che frequentavo, anzi frequentavamo, “il Bottegone”, erano quelle compagnie che ci tenevano legati a quelle scomode sedie di plastica, quasi stregati da un’atmosfera magica.

            Il periodo estivo era quello che consentiva una maggiore disponibilità di tempo ed una più assidua frequentazione dei simpaticissimi avventori del “bottegone”.
            Le serate, ed anche le nottate, risultavano più lunghe, più calde e soprattutto più adatte alle lunghe conversazioni che si svolgevano fuori di quei chiassosi locali, sul Corso Matteotti, esattamente in due abituali punti: le scalette d’ingresso al numero civico 75, che fungevano da sedile naturale, ed un altro sedile naturale, fornito da un’insenatura esistente nel muro di fabbrica della Chiesa Collegiata, situato sul lato destro di Corso Matteotti appena prima di sboccare su Piazza della Repubblica.
            La comitiva di “conversatori” era quasi sempre la stessa: Silvano ‘i Consorzio, i’ compare Giuliano, Vario Peruzzi, Dante Ciambella, Casimiro Grattarola ed alcune volte Biagio Peruzzi, con l’aggiunta di una decina di noi giovani ascoltatori, pronti a stimolare la narrazione di semplici e curiosi fatti, che, nel riferire, risultavano talmente esilaranti, da costringerci a “tenere la pancia con le mani”, ovviamente per le risate!
            L’incontro serale estivo del dopo cena era una sorta di Teatro all’Aperto. I racconti erano recitati dai quattro simpatici personaggi, ascoltati dal resto dei presenti in religioso silenzio, in rigoroso dialetto vignanellese. La “recita” si interrompeva solo nel caso di “eccesso di… riso”!
            A questo spettacolo all’aperto, che si protraeva a volte fino a notte fonda, assisteva sempre la solita “platea”: Nicola Piermartini, Luigi Stefani, Francesco Piccioni, Geo Gazzarini, Arduino Ceccarelli, Tommaso Cianchi, Angelo Fornasiero, Efisio Urrai, Loreto Seralessandri, il sottoscritto e qualche altro giovanissimo spettatore occasionale.

            I personaggi di ottobre saranno coloro che, per mio tramite, si apprestano a raccontarVi quelle singolari “recite a soggetto”, che nulla avevano da invidiare al miglior teatro pirandelliano per la naturalezza espressa nella esposizione dei fatti, per l’appropriata gestualità degli interpreti, e consentirVi la loro conoscenza: personaggi che sarà difficile riavere o far rivivere, uomini d’altro stampo, d’altri tempi, con altri ideali ed altri valori. Tutti sicuramente perfettibili, criticabili, scorretti, forse avventurieri ma con un cuore che, al di fuori delle specifiche attività, avrebbero sacrificato per il bene altrui. Una cosa li accomunava: il gusto per la vita ed il piacere di poterla vivere in allegria, perché, ripetevano: “La vita è un lampo!”

            Il primo “narratore” è Vincenzo (Giuliano) Salvatori (1926 - 2003), mio padrino di battesimo acquisito in quanto marito della mia madrina, Ottavia Tabacchini (sorella di un Tommaso Tabacchini deceduto tragicamente in guerra e di cui ho l’onore di rinnovarne il nome).

           Il compare Giuliano, figlio di possidenti contadini, godeva di buona posizione economica ma le guerre, le vicissitudini della vita ed il lavoro lo avevano fatto crescere con un carattere pratico e poco incline alle formalità ed alla diplomazia.
            Usava, nel parlare, uno stretto dialetto paesano ed un intercalare proprio dei “Vignanellesi di una volta”. Aveva un cuore immenso ed una disponibilità totale, era un lavoratore infaticabile e sempre pieno di attenzioni per la famiglia e per gli amici.

            Spesso veniva invitato a raccontare qualche breve fatterello verificatosi nelle non rare occasioni, in cui con gli amici si recava in “citta” per quelle che, più tardi, un famoso film definì “zingarate”. Il compare Giuliano si scherniva un po’ per farsi pregare più a lungo, diceva che il fatto era stato ripetuto altre volte, ma alla fine si sedeva sullo scalino del civico 75 ed iniziava il racconto.

            “Erimio ‘nnati a cena da’a cantina mia; sempre i zzoliti: io, Vairo, Dante, Casimiro e Biagio fratito, noo eh Va’ (rivolgendosi a Vario)?” “Sì, sì c’era pure Biaggio” rispondeva Vario.
“Era stata ‘na bella cenetta. – seguita Giuliano – Che ‘emo magnato: sett’otto ova ‘e maccaroni che ‘ea preparato ‘a Ottavia, e ‘na coroncella e rocchj che ‘ea portato Vairo. Tanto pe’ fa’ a bbase! Doppo quello mezzo crapetto che gl’ieno rigalato da Ccasimiro: tenero come ‘a giuncata! E un po’ ‘e vino rosso, che quest’anno era speciale.” (I cinque oltre ad essere buoni amici, erano ancor più ottime “forchette”!)
            “Ce semo arzati su da’a sedia che saranno state verso alle 10 (ore 22 circa). Biagio e Dante cominciono a dì: “Namo a piglià i’ caffè, namo a piglià i’ caffè” e allora ce mettettimo tutti dentro ‘a machina ‘e Biagio e partìmo convinti de venì d’i’ bbottegone. Invece Biagio avea svordato pe’ ‘nnà a Fabbrica”. “Casimiro glie fa: “Ma du và, Bia’?”, “Nnamo a Roma – risponde Biagio – a piglià i’ mejo caffè d’Italia: ve offro un caffè al Sant’Eustachio, al Senato, e… facemo un po’ de caciara!”
            L’affermazione non ammetteva repliche, quando Biagio Peruzzi decideva di fare una cosa non c’era ragione che potesse farlo tornare sui suoi passi. La prospettiva di divertirsi un po’, inoltre, era attraente. La strada risultò poco trafficata ed il percorso piacevole.

            Bene, nel dare tempo ai nostri amici di giungere a Roma, cercherò di descrivere meglio il personaggio Giuliano. Il fatto che si esprimesse in dialetto vignanellese non deve assolutamente farlo immaginare come una persona “semplice”; al contrario Giuliano era molto intelligente, pronto nelle risposte, per nulla timido e, soprattutto, era un uomo di grande spirito. Aveva un aspetto tranquillo ma… “non se ne faceva passare una”! Anche nei fatti che raccontava si fingeva ingenuo ed un po’ “imbranato”, ma tutti sapevamo che lo faceva senza esserlo! Gli affiatati amici erano sempre pronti allo scherzo, all’allegria e li accomunava un carattere molto simile.

            L’arrivo al Bar Sant’Eustachio avvenne intorno alle 23: Biagio, amante di auto grandi e veloci, aveva corso un po’ e quindi, dato uno sguardo agli altri, comunicò che la… commedia poteva incominciare!
            Il Bar Sant’Eustachio, per chi non lo conosce, è un Bar molto rinomato in Roma e molto frequentato fino al tarda notte, non è molto grande ma ha due banconi immensi: in uno si servono caffé, cappuccino, cioccolato e mescita in genere e nell’altro viene venduto caffé in chicchi appena tostato e vengono serviti gelato, pasticceria e dolci in genere. La fila è continua ed interminabile ma nessuno “scalza” chi è arrivato prima.
            Nessuno, dicevo, tranne i nostri amici: Giuliano con i suoi movimenti un po’ rudi e Casimiro con la sua notevole mole, portano in breve tempo tutta la combriccola in prima fila al banco.

            Caffè per tutti, meno che per Giuliano: “Da mme i’ ccaffè nu mme fa dormì, me sa meglio ‘na tazza ‘e caffellatte che ce magno checcosa; i’ ccaffellatte, assoluto, me fa peggio de ‘a purga! – recitava Giuliano ad alta voce – Ce ‘llete du’ ciammellette co’i vino eh?”, “Guardi signore – risponde educatamente il barista – i dolci sono nell’altro banco”. Giuliano, spintonando, si sposta dall’altra parte dove una sorridente ragazza chiede: “Cosa posso servirle?”, “Per la verità me varebbero du’ ciammellette ch’i vino – risponde Giuliano – ce ‘llete?” Nel frattempo, Vario, Biagio, Casimiro e Dante, consumato il caffè, si affiancano a Giuliano invitandolo a far presto. “Guardi signore – riprende l’inserviente - i dolci sono lì, si accomodi!”, “Ma che mme còmmito – risponde Giuliano. Nun ha ‘nteso? C’emo prescia, dovemo da ‘nnà via. Va bè, signorì, lascia stà, damme un po’ un pamparitozzo”. “Come dice, signore? Un maritozzo?”, replica l’inserviente. “Sì, sì, un pamparitozzo” risponde Giuliano. A quel punto “gli amici di Zingarate” iniziarono ad ironizzare sulla terminologia usata da Giuliano. Dante: “Giulia’, e che corbo è i’ pamparitozzo? Nu’ ha ‘nteso ‘a signorina? Se chiame i’ maritozzo.” Nel contempo l’inserviente arriva portando il maritozzo imprigionato tra le pinze da pasticceria. Presentandolo a Giuliano lo invita ad afferrarlo con un salviettino di carta. Giuliano si accinge a compiere tale manovra ma, nel momento in cui la signorina apre le pinze, non è pronto ad afferrare il maritozzo che cade in terra. Sorriso generale della sala che, allo strano idioma di un concitato Giuliano, stava prestando più attenzione a quanto accadeva.
Ma, signori’ – fa Giuliano – e pinze nun so’ calamitate eh?” Quella esclamazione fece esplodere l’intera sala in una fragorosa e quasi isterica risata. Quel dialetto, quella finta goffaggine e quella ultima assurda battuta avevano destato l’attenzione di tutti gli avventori. Giuliano non si scompose, gettò il salvietto di carta e concluse: “Va bè, nu‘mporta, i’ pamparitozzo nu’mme và più. Bevo quello goccetto ‘e sciacquabbruglia de llà e po’ ‘namo.” Purtroppo, quando Giuliano torna all’altro banco non trova più neanche il caffellatte, come diceva lui. “Là, là, nu‘mporta – concluse – i’ ccaffè a Roma era ‘ncominciato male e jè finito a ppeggio. Nu’mme parlete più de venì a piglià i’ caffè decchì, che io lo piglio tanto bene da ‘i bbottegone!”
            “Ripigliettimo ‘a machina e venittimo a casa” - concluse Giuliano, guardandosi in giro come per cercare l’approvazione per la buona interpretazione fornita ai presenti.
            Questa soddisfazione, purtroppo, non riuscimmo a dargliela: eravamo tutti piegati in due dalle risate o impegnati a “rinnovare” qualcuna delle sue comiche “uscite” dialettali.

           Un altro curioso “narratore” era Silvano Salvatori (1925 - 2005). Silvano, scapolo, era vissuto con i genitori fino al 1978 poi, con la morte del padre Innocenzo, con la madre fino al 1986 e poi da sè fino alla sua dipartita. Silvano non era molto alto e di questo piccolo complesso parlava spesso. Ripeteva: “Si ero un parmo più ardo, avrebbe fatto vedè i’ stravede!”. Bambino durante il fascismo ed adolescente nel periodo della presenza tedesca in Vignanello, era vissuto con l’idea del rispetto per le istituzioni, abituato all’educazione intransigente di un padre severo ed all’uso di modi cortesi verso tutte le persone maggiori di lui per età.
            Silvano raccontava spesso fatti della sua infanzia: la paura causata dai componenti della Milizia Fascista che obbligavano a comportamenti di sottomissione ed ubbidienza e che terrorizzavano ed intimorivano i cittadini.
            Raccontava del periodo di guerra, della presenza di militari tedeschi circolanti per le vie del paese, che avevano il compito di controllare la popolazione e di sedare qualsiasi accenno all’insubordinazione, anche con l’uso delle armi.
            Più tardi questo riverente timore si trasferì verso i militari dell’Arma dei Carabinieri che, agli occhi e nel subconscio di Silvano, avevano preso il posto dei “vecchi fantasmi” in camicia nera o dei paurosi drappelli che camminavano al “passo dell’oca”.

            Nei racconti della sua infanzia raccontava di fatti sempre intrisi di timore o paura, in special modo quando doveva parlare, e lo faceva frequentemente, delle forze dell’ordine.
La sua piccola statura accresceva l’immagine delle altre persone e quindi raccontava di prestanti giovanotti tedeschi dalla voce possente, degli ordini impartiti: precisi ed indiscutibili; riferiva di carabinieri giganteschi, severi, imperturbabili nelle loro divise nere; parlava del timore che incuteva qualsiasi militare e del repentino abbassamento del tono di conversazione, nel momento in cui si scorgevano soggetti in divisa.
            Ripeteva: “Quanno stemio in giro e se vedea da luntano un tedesco, quelli gesucristi ardi du’ metri! Saranno stati ardi comme te Lore’, – guardando in direzione di Loreto Seralessandri – ce arzemio tutti dritti, ‘ppoggiati da i’ mmuro, co’ ll’occhi bassi e… tutti zitti comme ll’oglio!”. “Nun parlémo po’ quannno passéno i ccarbinieri, belli giovinotti, magàra nun tanto ardi: saranno stati ardi comme te Lore’, - e guardava ancora in direzione di Loreto – quello che stemio a fà, stemio a fà, se smettea ‘gni cosa e tutti pronti pe’ dagli i’ nnome. Nun se facéa un fiato!”.
            L’epoca dei fatti, che Silvano citava, era sicuramente un’epoca difficile e il controllo ai cittadini risultava eccessivo. Silvano descriveva, con le sue personali paure e con la sua esperienza vissuta, i clamorosi fatti di sangue avvenuti. Si condividevano i suoi trascorsi timori e le difficoltà quotidiane. Quello però che ci faceva sorridere erano i paragoni, specie in altezza, che facevano riferimento sempre alla medesima persona: prima alta, poi non tanto alta e poi… così, così.

            Ogni tanto Silvano invitava un altro “narratore” alla conversazione, era Biagio Peruzzi. Lo invitava a raccontare le sue “avventure” perché Biagio girava il mondo, aveva buone conoscenze e l’aria di un grande e ricco commerciante. Biagio raccontava di viaggi, di incontri importanti, di affari in commercio, di strategie commerciali e di situazioni, certo preoccupanti per tipi come i nostri eroi, legate a rilevanti esposizioni debitorie nei confronti dei suoi fornitori di merce (Biagio commerciava in animali da macello). Silvano restava incantato dalla dialettica di Biagio, e soprattutto dal racconto di viaggi, donne, affari, che a lui apparivano come irreali favole.
            Una volta Biagio raccontava di aver acquistato una rilevante quantità di capi di bestiame da macellazione ed aveva speso 100 milioni (all’epoca erano moltissimi soldi. “Si tte serve un milione - diceva Biagio – eccolo! – mimando estrazione dalla tasca – “Ma pe’ 100 milioni , nun se guarde più in faccia nissuno: nun c’è nè i’ ppadre, nè i’ ffratello, gnente…!”). Il fatto curioso era che Biagio tale acquisto lo aveva concluso sulla parola, per cui, in un periodo relativamente breve, avrebbe dovuto onorare il debito. Non era certo del rispetto dei tempi concordati, ma il problema, in realtà non lo preoccupava affatto: avrebbe chiesto una dilazione.
“Io – se ne uscì Silvano dopo aver ascoltato il fatto – ‘a notte nun dormirebbe! Per me sarebbe ‘na gran preoccupazione”, “Io ‘a notte faccio tutto un sonno! - rispose Biagio con aria tranquilla - E che io m’ho da preoccupà? Esso – aggiunse, riferendosi al venditore, - se dovrebbe preoccupà!”

            Gli allegri incontri del “dopo cena” si ripetevano con frequenza nel corso della stagione estiva ed erano motivo quasi irrinunciabile all’uscita serale, momenti talmente divertenti a cui non avremmo rinunciato per tutto l’oro del mondo.

            Particolarmente bravo nel “racconto” era Dante Ciambella (1923 - 1976), era talmente bravo che, a distanza di tempo, avresti giurato di essere stato presente al fatto.
            Dante, detto “l’americano” per via di alcuni zii materni emigrati in America, aveva una dialettica incredibile, parlava per tempi interminabili: occorrevano 100 lire per farlo incominciare e 100.000 per farlo smettere (per usare un proverbio nostrano)!
            Dante, inoltre, era una persona spiritosissima con una prontezza innata nel saper coglier, in qualunque fatto, l’aspetto comico e burlesco. I suoi racconti, spesso ripetuti, non stancavano mai. I fatti erano sempre un po’ diversi ed integrati da aggiunte e/o riflessioni esilaranti. A volte rideva anche lui delle nuove trovate e cercava di nascondere la smorfia di sorriso con una mano che, opportunamente, copriva la bocca ed accarezzava il suo copioso naso.

            Il fatto che ci raccontò una sera ci fece sorridere per lunghissimo tempo: ricordavamo l’evento ad ogni successivo “rendez-vous”.

            Il tema della conversazione era il sonno e ciascuno raccontava le proprie abitudini o gli espedienti usati per un riposo migliore, riferendo di salutari dormite senza interruzioni.
            Anche Dante parlava delle sue abitudini, dettate però dalle esigenze lavorative. Riposava brevemente nel primo pomeriggio per recuperare la stanchezza dovuta alle levate mattutine.
            Quella sera Dante volle raccontarci un curioso fatto causato da un sonno, quasi come una sorta di letargo, che lo aveva colto qualche giorno prima: erano i primi giorni di un caldo giugno.
            Dante, proprietario e gestore insieme alla moglie Maria di un’avviata attività commerciale di alimentari e tabacchi in Via Cavour, era abituato ad alzarsi molto presto al mattino. Spesso si recava a Viterbo per il prelievo dei tabacchi e dei valori bollati o per il rifornimento di altri generi destinati alla vendita. Rientrava a Vignanello intorno alle otto e, successivamente, dava inizio alle sue attività. Anche Maria si alzava presto: preparava i figli per la scuola, riassettava la casa, disponeva per il pranzo e poi raggiungeva Dante al negozio: la distanza non era proibitiva.
            Alle ore 13,00 si chiudeva il negozio, ci si recava a casa per il pranzo preparato con amore da una signora convivente da sempre con i coniugi Ciambella (Michelina Patrizi 1904 - 1988) e dopo il pranzo, come già detto, Dante recuperava un po’ di forze con una salutare ma fugace “pennichella” fino al momento di riprendere l’attività pomeridiana.
            In quel fatidico giorno di giugno del 1970 (anno più, anno meno) Dante aveva chiuso il negozio per l’intervallo di pranzo e si era avviato, da solo, verso casa. Maria, a causa del grave stato di salute della madre a cui prestava assistenza, quel giorno non era andata al negozio e Michelina, dopo aver preparato per Dante, era andata “a dare una mano” a Maria.
            Dante giunse a casa ma, forse perché solo o forse per l’improvvisa calda giornata, mangiò pochissimo e, stanco per il lavoro, si recò in camera da letto dove, in “deshabiller”, calzini corti e mutande di tela bianca “a braghetta” (gli attuali boxer, ma molto “abbondanti” in dimensioni), si sdraiò sul letto e cadde in un sonno profondo.
            La circostanza non sarebbe stata affatto strana se, come previsto, Dante si fosse svegliato per tempo ed avesse aperto la porta di casa al figlio Armando che, tornando da scuola con il terno delle 14,20 (anche lui con il già celebrato Trenino della Roma-Nord), doveva pranzare.
            Tale contrattempo diede inizio ad un vero e proprio dramma, che si consumò in meno di un’ora e che, fortunatamente, ebbe una lieta conclusione.
            Seguiamo, per ordine il racconto di Dante che così ricostruì il fatto:

            Alle ore 14,20 Armando scende dal treno, percorre un breve tratto di Via della Stazione, prende per Via Roma e quindi per la ripida salita di Via Talano, sale le scalette che lo portano al vicino portone del suo palazzo, giunge alla porta di casa e suona: una volta, due volte, tre volte… più volte ed anche molto a lungo. Nessuna risposta.
            Armando che sapeva della malattia della nonna e, pensando ad un possibile peggioramento, percorre all’inverso la strada già percorsa e si reca a casa di quest’ultima. Lo stupore di Maria è evidente: “Arma’, ccomm’è, nun ha’ pranzato eh?!?”, “No ma’, a casa non ha aperto nessuno, me credevo che papà stava con te”. “Comme nun ha aperto nissuno!?! – replica in tono allarmato Maria - Tu’ pa’ sta dungàsa. Se sarà messo a dormì!”. Armando per tutta risposta riprende i libri e ritorna verso casa. Suona ripetutamente alla porta e poi di nuovo torna dalla madre, “Ma’, papà a casa non c’è! Ho sonato, ho bussato, ho chiamato ma non ha risposto”. L’agitazione di Maria comincia a crescere “Ma nun è possibile, ‘ea detto che vea a casa e te ‘spettèa. Glie fosse successo checcosa!”. Maria esce da casa della madre e si dirige con passo veloce verso casa sua; per la strada incontra qualche conoscente a cui chiede di Dante, precisando che non risponde a casa. Le conoscenti, per sostegno morale e preoccupate del fatto, si uniscono a Maria e la seguono verso casa. Maria sale le scale velocemente, si affacciano le vicine di casa che chiedono notizie, qualcuno le informa e Maria, trafelata, raggiunge la porta di casa dove prova ad aprire con la sua chiave: la porta è chiusa da dentro! Incomincia allora a bussare con forza, ripetutamente. Un amico di famiglia (Mauro Grattarola, fratello di Casimiro) intanto provvede a reperire una scala per salire dalla finestra, la sistema alla meglio e si avventura nella salita, frantuma il vetro per entrare; contemporaneamente, a causa delle ripetute spinte alla porta, questa cede, si apre e Maria, colta da una crisi di pianto e seguita da uno stuolo di persone, entra in casa.

            L’ignaro Dante è in camera, supino sul letto, e indossa solo calzini e mutande. Le mutande lo coprono a malapena! Il volto è disteso, tranquillo come di chi assapora il gusto di un salutare e meritato riposo. Non ha avvertito alcun rumore né valutato il tempo del suo profondo sonno.
            Maria entra in camera da letto! La vista di Dante in quella silente posizione le sembra una triste premonizione e grida. Grida con tutta la voce che ha in petto: “Daaanteee...!!”

            Così precisa Dante: “Co’ quello strillo, me parea de avé sentito a Tromba de i’ Giudizio! Porca matosca, faccio, e che è successo?”
            Dante, svegliato bruscamente, è stordito e spaventato insieme. Alla vista di tanta moltitudine resta seduto sul letto cercando in qualche modo di coprirsi alla meno peggio.
            Il risveglio improvviso di Dante provoca lo svenimento di Maria! Dante prova ad alzarsi per aiutarla, ma, rendendosi conto di essere quasi nudo, resta interdetto. Non sa cosa fare, prova ad infilarsi i pantaloni, ma qualcuno ha già provveduto a prestare soccorso alla moglie.
            Dante per un attimo riflette. Immagina la morte della suocera ammalata, ma non capisce perché tutta quella gente si trovi a casa sua per le condoglianze; ancora non è perfettamente lucido e non immagina affatto le diverse circostanze che giustificavano tanto allarme!
            Poche brevi parole e tutto si chiarisce: le allarmate vicine se ne vanno, Mauro Grattarola ripone la lunga scala lasciando una finestra senza vetri, la porta di casa viene posticciamente sistemata, Armando consuma il suo meritato pranzo, Maria si riprende dallo spavento e Dante, con tutta calma e scuotendo la testa, si prepara per tornare al negozio, incredulo dell’accaduto.
            Al momento del racconto ne era ancora talmente incredulo che, non trovando altro modo per spiegarlo, concludeva in questo modo: “Penza un po’: quanno te piglie i’ primo sonno te pònno fa quello che glie pare”. Poi, assentendo con la testa, aggiungeva: “ Si ero morto, nu’ mm’ero accorto de gnente!”.

            Purtroppo Dante non ebbe questa fortuna, fu consumato da un male incurabile e si spense all’età di 53 anni perfettamente conscio e sereno. Molti piansero un caro amico, noi più giovani perdemmo un simpaticissimo “compagno di risate”.
            Ancora una cosa desidero aggiungere, ora che ho rinnovato il ricordo di Dante. Desidero ricordare, con affetto, Armando Ciambella, figlio di Dante, persona allegra e cordiale: proprio come il padre. In alcune espressioni, in alcuni gesti potevano tranquillamente confondersi. Anche Armando ci ha lasciato prematuramente: lui se ne andò senza “accòrgese de gnente”, proprio come aveva detto suo padre riferendosi a “quel primo sonno” di cui fu vittima molti anni prima. Era il 12 Febbraio del 2008.

            Anche Vario faceva parte dell’allegra brigata serale, e non era da meno degli altri nel raccontare fatti e circostanze da ritenere, a volte, impossibili.

            Vario Peruzzi (1925 - 2009)
(Vairo Pallone)
era il terzo dei nove figli di Ugo Peruzzi (1894 – 1969) (Ugo quello ‘e Giachetto) e, come primo maschio, quello designato seguitare l’attività del padre macellaio. In realtà tutti i figli maschi di Ugo, forse perché aiutanti nel negozio del padre, si orientarono verso la stessa professione: Vario e Luigi (Mimmi) a Vignanello, Biagio in diverse località del Lazio e Bruno a Civita Castellana.
            Vario, come anche Biagio, era un logorroico; parlava in continuazione di tutto: politica, commercio, agricoltura, sport, famiglia. Qualunque argomento era, per lui, motivo di conversazione e la cosa curiosa era che, negli svariati argomenti, riusciva ad inserire sempre qualcosa di strettamente personale.
            Ma Vario era così: quando prendeva la parola, era tanto il piacere di parlare, che spesso nei suoi giudizi, nelle sue affermazioni e nelle sue critiche, nei suoi racconti, risultava esagerato. Si poteva non condividere il suo modo di conversare, perchè aveva la parola più rapida delle ragionate conseguenze, ma questo avveniva in tutto, per tutto e con tutti, ma non si poteva tacere la sua sincerità e spontaneità: virtù sempre più difficili da trovare! In questo, di certo, era fondata la solidale amicizia, che lo legava al resto della compagnia.

            Vario era per gli amici ed avrebbe dato tutto per loro: uscendo dai locali del Bottegone si proponeva, sempre, per pagare le poche cose consumate e lo faceva in modo clamoroso!
            Al fine di consolidare la generale opinione che lo ritraeva come ricco commerciante, cercava di impressionare gli altri avventori, utilizzando atteggiamenti eccessivi e che lo facevano chiaramente apparire innaturale.
            Avvicinandosi alla cassa per saldare il conto del gruppo, estraeva dalla tasca posteriore dei pantaloni un artigianale e consistente portafogli in “cartapaglia” (di quella usata per confezionare la classica “cartata da macello”) accuratamente piegata in modo da costituire diversi scomparti. In ciascuno di questi scomparti erano ben disposte diverse banconote selezionate per “taglio”. Era sicuramente un gruzzolo consistente formato da cartamoneta per Lit. 100.000, 50.000, 20.000, 10.000, 5.000, 2.000, 1.000 (nessuno di noi e degli avventori presenti aveva mai visto tanto denaro insieme!), Vario chiedeva il conto, che solitamente ammontava a meno di 1.000 lire. Allora metteva nuovamente in tasca il suo “gonfio” portafogli ed estraeva, dalla tasca anteriore dei pantaloni, un piccolo portamonete per gli spiccioli con cui saldava il conto.
            Solo in poche circostanze eravamo privati della vista di tanto benessere. Questo avveniva quando capitava al Bottegone il fratello minore di Vario: Biagio Peruzzi.
            Biagio aveva un grandissimo difetto: soffriva di megalomania! Qualunque cosa si facesse in sua presenza era a suo completo carico, logistico ed economico: trasporto, ospitalità, regali, conti da pagare e quant’altro. Valeva una speciale regola: presente Biagio, era vietato anche il semplice gesto di avvicinamento della mano alla tasca (nell’atto di pagare!): era tutto “già pagato”!
            Vario, dicevo, era un grande oratore. Una caratteristica lo distingueva dagli altri già noti: gli eventi raccontati da Vario non potevano essere che esagerati, come esagerata era ogni sua cosa.
            In una serata estiva di quelle già descritte Vario ci allietò con una di quelle sue storie impossibili. Un fatto che poteva accadere solo a lui e di cui solo lui poteva proporre il racconto.

            Si parlava di fenomeni eclatanti che si verificano in natura: fenomeni atmosferici violenti, terremoti devastanti, inondazioni catastrofiche, maremoti, eventi disastrosi in generale e particolari manifestazioni fuori dal normale che colpivano altri continenti, altre regioni.
            “Parlémo dell’addri posti, ma certe cose succedono pure decchì”. Se ne uscì Vario, e tutti si resero conto che stava per raccontarne una delle sue. “Ma che c’entre, Và – rispose pronto Casimiro, certo di invogliare l’amico al racconto di una sua “incredibile” esperienza – da noi i ffatti che succedono nun so’ tanto pesanti comme dall’addri paesi, sarà perché c’emo un andro clima”. Casimiro aveva fatto centro!
            “Tu parli così perché nun sa’ che m’è successo ll’an’passato quanno c’è stata quella mattinata de nnebbia”, rispose Vario, ancora infastidito dall’eccezionale fenomeno che stava per raccontare. “Madonna, e che sarà successo mmai ?” Chiese ancora Casimiro. “Mbeh – riprese prontamente Vario – mo ve lo voglio riccontà; a sentillo manco pare vero!”. Questa precisazione era l’anticamera di una storia lunga, drammatica ed incredibile: una storia che avrebbe riempito il resto della lunga serata.

            “Me arzo verso alle sei co’ ll’intenzione de ‘nna a ‘nzorfà quelle poche piante ‘e frutta che ciò attorno ‘i ccasale. Do uno sguardo de fora ‘a finestra pe’ vedè comme era i’ ttempo: tutto bianco fitto, una nnebbia che nun se vedéno manco ‘e luci de ‘a strada. Madonna, faccio tra me, che nnebbia! Speriamo che se arze presto i’ zole, sinnò ‘sta mattina nun combino gnente! Baste, scegno giù da ‘i garàce, carico ‘a machina da ‘nzorfà, ‘i zorfo che ‘eo messo a squaglia’ a sera prima, ‘e taniche co’ ll’acqua, un secchio… insomma tutto l’occorente, metto in moto a machina e parto. Aoh! Nun se vedéa gnente, un’ummidità incredibbile che ho dovuto ’ccenne ‘e spazzole de i vetri. Faccio tra me: me la piglio còmmita. Speriamo che ‘a nnebbia se arze presto. Faccio un giretto pe’ Vignanello senza ‘ncontrà un’anima viva, nun ce se vedea manco a biastimà! Pe passà un po’ tempo ero ‘nnato verso Centignano a vedè comm’era ‘a situazione. Uguale!
Piglio e rivengo a Vignanello, me ffèrmo da’a piazza. A forza de fa su e giù se saranno fatte verso alle otto: ancò a nnebbia era fitta comme quanno ero scappato da casa”.
            Gli ascoltatori, che non avevano mai inteso da altri tale singolare ed eccezionale fenomeno, cominciarono ad avere qualche dubbio sulla reale entità dell’evento pensando che l’esagerazione di Vario terminasse con l’unico eccesso del fenomeno nebbioso, ma si erano sbagliati!
            “Comunque – seguita Vario – piglio a strada ‘e fora e piano piano, guasi senza vedè a strada, svordo pe’ ‘nnà a Corchiano, séguito a svordà a destra, po’ a sinistra, cammino cammino, ‘rivo da i’ stradello de fora: ancò nun se vedéa gnente! Me ffermo d’i spiazzo de fora a ‘i ccasaletto, scegno da ‘a machina, tiro fora tutto ll’occorente, jempo ‘a machina da ‘nzorfà, metto su ‘na tutaccia. Guardo attorno ‘i ccasale pe’ regolamme du’ steno ‘e piante, ma nun vedeo gnente. Faccio un andr’e ddu’ passi e m’è pparso comme de vedelle. Dico sa’ che faccio, orammai sto decchì, ‘a machina da n’zorfà è piena, do ‘na ‘nzorfata de corsa e po’ vado a casa; magara co’ ‘a nnebbia nun serve a gnente ma male nu’ glie fa! Metto ‘a machina sopre ‘e spalle, me ‘vicino d’e piante e comincio”.
           
Tutti ci domandavamo come sarebbe andata a finire la storia, sapevamo che Vario poteva continuare il suo monologo fino a prenderci per stanchezza quindi qualcuno gli mise fretta: “Va’, si nun te sbrighi a finì de riccontà, ‘nnamo a casa! Se so fatte alle undici e mezza!”
            “Vabbè ! – riprese Vario – Pe’ falla breve, appena finito de ‘nzorfà ‘a prima pianta sento ‘na voce che me fa: “Vairo, ma che sti a fa’?”, “Comme che sto a fa’, glie sto a dà un po’ de acqua ramata da ‘ste quattro piante ‘e frutta. Ma tu, piuttosto, che stì a fà da mia?”, “Da tua? Ma quale tua, stemo dummezzo a Valle!”
“Mah, comme dummezzo a Valle
- glie faccio - ho fatto tutta ‘a strada pe’ ‘na fora!”, “Te sarà sbagliato - me fa sto’ cristiano - nu’ vedi eh? Quello è i’ “pal’a valle”! Sti a ‘nzorfà e piante vicino ‘a linia ‘e i’ ttreno!”
            Ha’ capito? – concluse Vario – M’ero perso pe’ quanto era fitta ‘a nnebbia, e voiaddri me dicete che da noi ‘ste cose nun succedono. Ogni vorda che ce ripenso me vene da piagne! E’ proprio vero: l’ora ‘e ‘i fregnoni passe pe’ tutti!”

            Un’ultima esternazione di Vario desidero raccontarla. E’ un fatto breve e simpatico che serve a capire meglio quale fosse il suo carattere: spontaneo e… troppo immediato.
            Il fatterello lo riassumo in modo quasi telegrafico perché di poca importanza, molto più spontaneo invece risulta il finale, nel quale la sua abitudine a straparlare diventa quasi un curioso modo di autodenuncia.
            Vario raccontava di alcuni colleghi macellai che, spacciandosi per grossi commercianti di carne, intendevano rifilargli una merce poco negoziabile. Questi loschi individui cercavano di mantenere alto il prezzo della carne per dar segno di genuinità, ma Vario, esperto e smaliziato intenditore di quel che gli veniva proposto, sapeva che il prezzo richiesto poteva essere sicuramente molto “trattabile” vista la poca appetibilità commerciale e la palese truffa alimentare.
            Il nostro eroe avanzò una proposta astuta, chiese alcuni campioni di merce, in prova ad un prezzo stracciato, rendendosi disponibile ad acquistare successivamente il resto della partita ad un costo maggiorato (chissà, forse avrebbe fatto retromarcia in caso di risposta affermativa!).
I marpioni venditori non accettarono, svelando implicitamente l’intento truffaldino, e rinunciarono al colpo gobbo, rendendosi conto della sottile scaltrezza di Vario.
            Vario, soddisfatto, concludeva e commentava in questo modo: “Ha’ capito? Me voléno fregà (in effetti usava un termine più appropriato ma fortemente scurrile!) da mme! Me voleno fregà da mme! – quasi non si capacitava Vario - Da mme, da mme che… ho rubato fino all’addro ieri!”

                                    Ciao … alla prossima !!

Vignanello, li 24 ottobre 2010