29.09.11
L’amore per la natura che, scioccamente, usiamo!
di Tommaso Marini

            Quella che propongo come lettura, ed anche come motivo di profonda riflessione per tutti i “puzzolosi”, è il sunto di una famosa lettera scritta da un uomo poco acculturato, e spedita ad un altro uomo molto importante di Washington, nel 1855.

            E’ la risposta di un “selvaggio”, il Capo Sealth della Tribù Pellerossa Duwanish, alla richiesta di un “civilizzato”, il Presidente degli Stati Uniti Pierce Franklin, relativa all’acquisto del Territorio indiano dei Duwanish.

 

            La lettera, assai più lunga e particolareggiata, è di una semplicità disarmante e di una profondità infinita. Ha il sapore del racconto di un vecchio nonno fatto ad un giovanissimo nipote, con parole, che questi, possa agevolmente comprendere nonostante la tenera età.

            Lo scritto risulta persino commovente nella descrizione amorevole delle cose che la natura concede e che, per costume di razza, diversamente vengono apprezzate.

            E’ una testimonianza d’amore per ciò che ci circonda e di cui abbiamo pochissimo rispetto, forse per una disattenta formazione culturale.

            Per molti questa lettera è considerata l’antesignana testimonianza dei numerosi movimenti ecologisti: sicuramente lo è! Come è, sicuramente, anche la ragionata riflessione di chi constata la poca salvaguardia di ciò che dovremmo custodire e, gelosamente, mantenere.

 

Lettera al Presidente Franklin

            “Il Grande Capo Bianco ci manda a dire da Washington che desidera acquistare la nostra terra. Come si possono comperare o vendere il cielo ed il calore della terra. L’idea ci sembra strana.

            Noi non siamo padroni della freschezza dell’aria e dello zampillare dell’acqua. Come si può chiedere di comperarli da noi?

            Qualsiasi ago splendente di pino, qualsiasi sponda sabbiosa, qualsiasi nebbia nell’oscurità dei boschi, qualsiasi radura erbosa, qualsiasi insetto ronzante è santo nella memoria ed esperienza del mio popolo.

            Sappiamo che l’uomo bianco non comprende il nostro sistema di vita. Per lui un pezzo di terreno è lo stesso di un altro, perché egli è uno straniero che viene durante la notte e prende dalla terra qualsiasi cosa gli occorra.

            La terra è sua nemica, non sua sorella, e quando l’ha conquistata, continua per la sua strada. Egli abbandona la tomba di suo padre e dimentica il diritto di nascita dei suoi figli.

            Non vi è alcun posto tranquillo nelle città dell’uomo bianco. Nessun luogo ove si possono ascoltare lo stormire delle fronde in primavera o il ronzare delle ali degli insetti.

            Ma forse è soltanto perché io sono un selvaggio e non comprendo, mi sembra che il frastuono delle città offenda le orecchie.

            Quanto vale la vita se un uomo non può più udire di notte il grido del succiacapre o il gracidare delle rane in uno stagno?

            Anche i bianchi scompariranno, forse prima delle altre tribù. Continuate a contaminare il vostro letto, e una notte sarete soffocati dai vostri stessi rifiuti.

            Quando i bisonti saranno stati tutti sterminati, i cavalli selvaggi tutti domati, quando gli angoli segreti delle foreste saranno invasi dall’odore di molti uomini, e la vista delle colline sarà oscurata dai fili che parlano, allora l’uomo si chiederà: dove sono gli alberi e i cespugli? Scomparsi! Dove è l’aquila? Scomparsa!

            E cosa significa dire addio al rondone, e alla caccia se non la fine delle vita e l’inizio della sopravvivenza?”

 

Vignanello, li 29 settembre 2011